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Tutto il bimembre campo empio, e feroce
     Corre sopra Ceneo forte, e gagliardo.
     E per più spaventarlo alzan la voce,
     E ver lui drizzan l’arme, il piede, e ’l guardo.
     E da tutte le parti ogn’un li noce,
     Chi ’l fere con la spada é chi co ’l dardo.
     Balzan l’arme da lui lucenti, e belle,
     Senza intaccar la sua fatata pelle.

Ogn’un, quanto più può, si maraviglia,
     Che da tante persone un’huom s’offenda,
     E la persona sua punto vermiglia
     In parte alcuna anchor non si comprenda.
     Monico al fin le man volge, e le ciglia
     A gli altri, e grida, e fa, ch’ogn’un l’intenda.
     Ó biasmo eterno, ò infamia di noi tutti,
     Ch’un campo siam da un sol vinti, e distrutti.

Un, ch’à gran pena è d’huom, ne dona à morte,
     Pur dianzi il vidi in gonne feminili,
     Ben ch’egli hoggi è ver’huomo ardito, e forte,
     A l’opre, ch’egli fà strenue, e virili.
     Noi donne siamo, e habbiam cangiato sorte,
     A l’opre, che facciam meschine, e vili.
     Egli è quel, che noi fummo, à quel, ch’io veggio,
     Noi siam quel, ch’egli fu, femine, e peggio.

Che giova à noi, se grande oltra misura
     Noi possediam questa terrena scorza?
     Che giova à noi, s’à noi l’alma Natura
     Doppie le membra fe, doppia la forza?
     Poi che mezzo huomo in semplice figura
     Con più valor ne risospinge, e sforza.
     Non credo più, che siam, com’io credea,
     D’Ission figli, e de l’etherea Dea.

Può star, che noi siam figli d’Issione,
     C’hebbe in se tanto cor, tanta possanza,
     Ch’osò ne la celeste alta Giunone,
     Di fondare il suo amor, la sua speranza?
     S’un, che non sò, se sia donna, ò garzone,
     Tanto d’ardire, e di poter n’avanza?
     Deh ravviviamci, e al mondo dimostriamo,
     Che gli stessi, che fummo, anc’hoggi siamo.

Dapoi ch’anchora invioiabil stassi,
     Dapoi che in van con l’arme habbiam conteso,
     A tor qualch’opra grave ogn’un s’abbassi
     Accio che sia da la gravezza offeso.
     Spogliamo i monti d’arbori, e di sassi,
     Veggiam di soffogarlo sotto il peso.
     Poi che l’arme non giovano, co ’l pondo
     Purghiam di questo Hermafrodito il mondo.

Un’arbor, ch’era in terra, annoso, e grave,
     Gli aventa in questo dir superbo, et empio.
     Tosto tutto lo stuol, che due corpi have,
     Cerca imitar del suo fratel l’essempio.
     Altri prende un gran sasso, altri una trave,
     E corre à far di lui l’ultimo scempio,
     Tanto, ch’al fin d’ogni soccorso privo,
     Fu dal bimembre stuol sepolto vivo.

Ei pur si move, e scuote, et usa ogni opra
     Per torsi sopra il peso, che ’l sotterra:
     Ma in van vi s’affatica, in van s’adopra,
     Che troppo abonda il peso à fargli guerra.
     Pur fa il monte tremar talhor, c’ha sopra,
     Come talhor, se ’l vento, ch’è sotterra,
     Cerca uscir fuor del sotterraneo albergo,
     Fa tremar à gran monti il fianco, e ’l tergo.

Fu in dubbio allhor ciò, che di Ceneo avenne,
     E quasi ogn’un di noi giudicio diede,
     Che per lo troppo peso, ch’ei sostenne,
     Fosse de l’alma sua l’inferno herede.
     Mopso il negò, che quindi alzar le penne
     Vide un’augel ver la superna sede,
     Tanto veloce, coraggioso, e bello,
     Che fu da noi chiamato unico augello.

Mopso vistol volar pria dolcemente
     Intorno al campo, indi affrettarsi al cielo,
     L’accompagnò con gli occhi, e con la mente,
     E disse, acceso il cor d’ardente zelo.
     Salve splendor de la Lapitia gente,
     Ch’ascondi il tuo gran cor sott’altro velo,
     Già fra gli huomini invitto, et hor co ’l volo
     Fra gli etherei viventi unico, e solo.