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Peleo, che morto scorge il suo guerriero,
     Contra l’empio uccisor drizza lo sguardo.
     Non molto andrai de la vittoria altero,
     (Gli dice poi sdegnato) e tira un dardo.
     Sentendosi il Centauro atto, e leggiero,
     Saltò per ischivarlo, ma fu tardo,
     Che ’l ferì, mentre in aria il salto il tenne,
     Lo stral, che più leggier battè le penne.

Il dardo al fier Centauro il petto offende,
     Ei con la man l’afferra, e fuori il tira.
     E mentre al sangue irato il guardo intende,
     Uscito senza il ferro il legno mira.
     L’ ira, e ’l dolor talmente il mostro accende,
     Che solamente à la vendetta aspira,
     E quel, che lui ferì, carica, e preme,
     À fin che primo arrivi à l’hore estreme.

Co’l legno, che senza arme in man gli resta,
     Fere il nemico impetuoso, e crudo.
     Peleo se bene armata have la testa,
     Vuol, che rompa quell’hasta in su lo scudo.
     Hor mentre il mostro altier fere, e tempesta,
     À lui percuote Peleo il petto ignudo,
     E con la spalla toglie il sangue ingiusto
     Al petto cavallino, et al viril busto.

Al fine in tante parti il punse, e colse,
     Che se’l vide cader morto davante.
     E poi che l’alma à Ifinoo, e à Dani tolse,
     Verso Hile, e Flegeron drizzò le piante.
     Uccisi quei, ver Dorila si volse,
     Che feria con un dente d’Elefante,
     E per lo molto popol, c’ havea ucciso,
     Tutto era sangue il dente, il manto, e ’l viso.

Io, che ’l veggo si fero, e si possente,
     Non manco di soccorso al fido amico;
     Gli avento contra un dardo immantinente,
     E intanto, Guarda, ò Dorila, gli dico,
     Chi fere meglio, ò ’l mio ferro, ò ’l tuo dente,
     E qual de i due più noce al suo nemico.
     Ei, che tardi di ciò s’accorge in vano,
     Per difender la fronte oppon la mano;

Che ’l dardo con la man la fronte passa.
     Hor mentre ei sconficcarlo intende, e stride,
     Peleo, che gliè vicin, fuggir non lassa
     Il tempo in van, ma lui fere, et uccide.
     Tal, che fa, che per forza il capo abbassa
     L’alma, che da due corpi si divide;
     Cade il Centauro, e lascia il dente eburno,
     Che serva al pronepote di Saturno.

E tu d’ogni beltà Cillaro adorno
     Mandasti l’alma à la tartarea sede.
     Tutte le gratie in te facean soggiorno,
     Eri tutto splendor dal capo al piede.
     Pur contra chi rubar ti volse al giorno,
     Poco tanta beltà favor ti diede.
     Non oprò l’età tua, ne ’l tuo bel volto,
     Che non ti fosse il dì per sempre tolto.

Era il suo volto si leggiadro, e bello,
     Ch’un de’ nuntij parea del sommo choro.
     È ver, c’havea già messo il primo vello,
     Ravvolto alquanto, e del color de l’oro.
     Tanta proportion mai lo scarpello
     Non diede mai nel suo più bel lavoro
     Ne’l far la statua d’Hercole, ò di Marte,
     Quanta n’havea il suo busto in ogni parte.

Da il capo, e ’l collo al suo destrier gagliardo,
     Degno saria di Castore, e Polluce.
     Macchiato à mosche nere ha il pel leardo,
     E come un vivo argento arde, e riluce.
     Atto, e leggier, come se fosse un pardo,
     Dove più brama il suo mortal, conduce.
     Tonda ha la groppa, il petto ha largo, e grosso,
     E corrisponde al piè fondato, e al dosso.

Molte bramato havean farsel marito,
     Che del biforme armento eran donzelle.
     Al fin sol una il trasse al dolce invito,
     Che ’l primo loco havea fra le più belle.
     D’Hilonome il bel volto almo, e gradito,
     D’Hilonome le due lucenti stelle
     Poter nel cor di Cillaro di sorte,
     Che ’l fecer prima amante, e poi consorte.