Gran gloria (disse allhor da l’ira vinto
Evagro verso il rio sicario volto)
D’haver sì bel garzon pugnando estinto,
Ch’à pena i primi peli havea nel volto.
Ma questo ferro anchor macchiato, e tinto
Del sangue rio, ch’à tuoi fratelli ha tolto,
Farà restarti un corpo essangue, e nullo,
E vendetta farà del bel fanciullo.
Mentre ei move la spada, e la favella,
Alza il Centauro rio la fiamma ultrice,
E ne la bocca aperta la facella
Percote, e la parola à lui disdice.
Poi con tanto furor l’arde, e flagella,
Che rende l’alma al regno empio, e infelice,
Contra Driante poi vuol far lo stesso,
Ma contrario à due primi have il successo.
Non molto prima inteso il gran romore
Ne la cittade il popol tutto corse
Con arme di più sorti à dar favore
A suoi Lapiti, ove il bisogno scorse.
Fra quai Driante di più forza, e core
Al biforme furor venne ad opporse:
Corse con una face al fiero Marte,
Ch’un foco eterno havea formato ad arte.
Fu à pena Evagro dal Centauro ucciso,
Ch’ei ver Driante co ’l tizzon si volse.
Ma appresentogli il buon Lapita al viso
L’empia facella, e ne la barba il colse.
Il foco, che ’l percosse à l’improviso,
Tanta noia gli diè, che in fuga il volse.
In fuga seco anchor voltar le piante
Arneo, Folo, Medon, Nesso, et Abante.
Astilo anchor la sua salute al piede
Fidò, che fra Centauri era profeta:
Il qual consiglio à suoi fratelli diede
Secondo à lui predisse il lor pianeta,
D’abbandonar le desiate prede,
S’haver volean di lor medesmi pieta.
Che ’l fato non volea dare al Centauro
Di quella pugna la corona, e ’l lauro.
Fuggendo l’indovin vede anchor Nesso,
Che fugge di Driante il braccio, e l’arme,
E spinto à quella volta il piè non fesso,
Gli aperse il fato suo con questo carme.
Non è al Lapito hoggi dal ciel permesso,
Che ’l corpo tuo de l’anima disarme;
Per quel, che l’arte mia già ne previde,
Ma ti riserba al grande arco d’Alcide.
Si ch’à Driante homai volgi la fronte,
E non ti sbigottir di pugnar seco:
Che non può darti al regno d’Acheronte,
Poi ch’Hercol ti dè far del giorno cieco.
Driante intanto fa di morti un monte,
E manda l’alme al più profondo speco;
A Licida, et Arneo quell’alma fura,
Che la biforme lor sostien figura.
Manda mill’alme à la tartarea tomba,
E quinci, e quindi si combatte, e more:
E l’arme, il grido, il timpano, e la tromba
Empie il ciel di tumulto, e di romore.
Non però con tal forza alto rimbomba,
Che desti ad Affinate il lume, e ’l core.
Dorm’ei sì ben, che ’l gran romor, c’ha intorno,
Non può far, che racquisti il senso, e ’l giorno.
Piacque à questo Centauro tanto il vino,
Che ne fa satio l’uno, e l’altro fianco.
Poi su l’herba giacea co ’l capo chino,
Senza pensieri addormentato, e stanco.
Vede Forbante, che ’l liquor divino
Di Bacco il fa del senso infermo, e manco,
E che lo Dio talmente ama Thebano,
Che dorme, e tien anchor la coppa in mano.
I diti al laccio accommoda del dardo,
E ’l mal pensier con queste note schiude.
Io vò, che ’l vin, che ti fa scuro il guardo,
Si tempre con la Stigia atra palude.
Lo stral se ’n vola via fero, e gagliardo,
E giunge, e fora à lui le carni ignude.
Vuol la natura al mal soccorrer tosto,
E in copia manda fuor co ’l sangue il mosto.