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Sdegnato Achille anch’ei tira una punta,
     La qual fere il grosso elmo, e passa avante,
     À fin che sia da lei la carne punta,
     Si che del fato suo più non si vante.
     Ma come fu la spada al volto giunta,
     Parve, che percotesse in un diamante.
     Fuor’ ei la tira, e l’appresenta al ciglio,
     E trova, che ’l suo acciar non è vermiglio.

Come s’adira il toro, s’esser crede
     in parte vendicato del suo scorno,
     C’ha balzato una maschera, e s’avede
     D’haver di paglia un’ huom tolto su’l corno:
     Tal s’adira l’Acheo, ch’aperto vede,
     Ch’ogni suo colpo in van gli spende intorno;
     Guarda, se ’l ferro è guasto più da presso,
     E gli trova la punta, e ’l taglio istesso.

Dunque è la destra mia quella, che manca,
     (Disse fra se) c’ha più debil natura?
     Dunque non è la destra ardita, e franca,
     Che già distrusse le Lirnesie mura?
     Non quella man, che l’onda illustre, e bianca
     Fe di Caico già sanguigna, e scura,
     Che fe di sangue à Tenedo le glebe,
     E che in Cilicia già distrusse Thebe ?

Sei pur la man, che Telefo due volte
     Già percotesti, il gran figliuol d’Alcide.
     Hor chi t’ha in questo dì le forze tolte?
     Ond’ è, che ’l ferro mio più non recide?
     Le luci ad un Nemete Licio volte,
     Ch’in favor de Troiani i Greci uccide:
     Con quanta forza può, dagli un roverso,
     E tutto il busto suo taglia à traverso.

Quando in due pezzi andar lo scorge in terra,
     Anchor che fosse tutto armato, e forte;
     Fa pur la spada mia l’usata guerra,
     (Disse) non ha però cangiata sorte.
     Con questa spada, che ’l mio pugno serra,
     Ho dato hor hora à quel guerrier la morte.
     Con questa istessa hor ferirò costui,
     Dio faccia, che ’l medesmo avenga à lui.

Con questo dir pien d’ira, e di dispetto
     Un fendente crudel su Cigno avvalla,
     Oppone egli lo scudo, e ’l taglia netto,
     Poi cala con furor sopra la spalla,
     Fin à la carne fa l’istesso effetto,
     Ma quivi ogni disegno al taglio falla.
     Il fiero Achille rasserena il ciglio,
     Che vede entrare il ferro, e uscir vermiglio.

Ma bene indarno fe le ciglia liete
     Che ’l sangue, onde macchiato il ferro scorse,
     Era del sangue tratto da Nemete,
     Dal cavaliero, à cui la morte porse.
     Per darlo al fine à l’ultima quiete,
     Poi ch’à più segni del suo error s’accorse,
     Fa, che nel fodro il suo stocco si copra,
     E la mazza ferrata impugna, et opra.

Non resta Cigno di ferire intanto
     À fin che ’l suo disegno ei non adempia;
     Ma in mille luoghi il suo ferrigno manto
     Percote con la spada ardente, et empia.
     L’altro, c’havea nel suo ferrato guanto
     Presa la mazza, à lui fere una tempia:
     Raddoppia il colpo, e martellar non resta,
     Et ogni colpo suo drizza à la testa.

Già gli ha in pezzi cader fatto il cimiero,
     E tutto l’elmo fracassato, e rotto.
     Già dentro egli intronar sente il pensiero,
     Non cerca più ferir, non fa più motto.
     Innanzi à gli occhi ha l’aere oscuro, e nero,
     Tutto in poter del forte Acheo ridotto.
     L’irato vincitor segue la guerra,
     Ne resta di ferir, che ’l vede in terra.

Perche non possa poi, se si risente
     Un cavalier si valoroso, e ardito
     Far rosso il suol de la Pelasga gente,
     E vetar lor di dismontar su’l lito,
     Discende da cavallo immantinente,
     E dove giace anchor tutto stordito,
     Corre, e senza indugiar l’elmo gli slaccia,
     E con ambe le man la gola abbraccia.