Ben stupido restò l’altero Achille,
Quando cader no ’l vide al primo in terra.
Ch’in cento imprese havea con mille, e mille
Co ’l suo primo ferir vinta la guerra.
Subito fa, che in aria arda, e sfaville
La spada, che dal fianco irato afferra
A fin ch’ella habbia ad oscurargli il Sole,
Ma move pria ver lui queste parole.
Feroce cavalier, ch’à quel, c’ho visto,
Porti l’honor del buon campo Troiano,
Pria, ch’io ti mandi al regno oscuro, e tristo
Co ’l ferro, che tu scorgi in questa mano,
Vorrei saper da te, qual padre attristo,
S’io ti fo l’alma ignuda, e ’l corpo vano,
Dimmi, se tu sei Cigno, ò vero Hettorre,
S’à Priamo, ò al Re del mar ti vengo à torre.
Non ti sdegnar, che ti fia honore eterno,
Che solo il grande Achille habbia potuto,
Donando al corpo tuo perpetuo verno,
Far l’ombra ignuda tua passare à Pluto.
Tu sol potrai vantarti entro à l’inferno,
Ch’al primo scontro mio non sei caduto.
Dove farai stupir mill’altri forti,
Che son là giù, ch’al primo scontro ho morti.
Ben conosco io propitia la mia sorte,
Rispose allhor la prole di Nettuno,
Poi che ’l guerrier del campo Acheo più forte
Cerca di darmi al regno afflitto, e bruno.
Però che quando havrò da te la morte,
L’havrò da quel guerrier, che vince ogn’uno.
Ma s’al regno io dò te scuro, e profondo,
Sarò di qua il prim’huom, c’habbia hoggi il mondo.
Son Cigno figlio al Re, che co ’l tridente
Nel grande imperio suo dà legge à l’acque:
Ma ben è tempo homai, che ’l ferro tente
Di saper qual di noi più forte nacque.
In questo ogn’un di lor fiero, et possente
Parlò co ’l ferro, e con la lingua tacque.
E mentre un pugno intende al crudo assalto,
Move l’altro il cavallo al passo, e al salto.
S’odon le botte lor si spesse, e crude,
Che par, ch’una fucina ivi martelli,
Quando ha l’acceso acciar sopra l’inchude,
E che ’l voglion domar quattro martelli.
Sempre le spade lor di sangue ignude
Mostrano i tagli lor lucenti, e belli.
Ó taglino il braccial, l’elmo, ò l’usbergo,
Non ponno il sangue mai trar del suo albergo.
Mentre il feroce Acheo si maraviglia,
E fiso l’occhio tien ne la sua spada,
Che non la scorge anchora esser vermiglia,
E sa quanto sia forte, e quanto rada:
Non prender, disse Cigno, maraviglia,
Che dal mio corpo il sangue anchor non cada,
Che come al padre mio piacque, et al fato,
Se bene ho il corpo ignudo, io sono armato.
Quest’elmo, et quest’usbergo, e questo scudo,
Che, come vedi, ne la guerra io porto:
Non son per far difesa al colpo crudo
D’altrui, ch’al corpo mio non faccia torto,
Che quando ancora io combattessi ignudo,
Non potrei rimaner ferito, ò morto.
L’arme, le piume, l’artificio, e l’oro
Sol porto per bellezza, e per decoro.
D’imitar cerco in questo il fero Marte,
Che veste anch’ei per ornamento il ferro,
Non perc’habbia timor, che in qualche parte
La spada il punga, over l’armato cerro.
Cagion n’è il fato, e non la forza, ò l’arte,
Se ’l sangue anchor dentro à le vene io serro.
Che s’à me una Nereide non fu madre,
Lo Dio de le Nereide è pur mio padre.
Hor s’io del sangue mio ti sono avaro,
Più liberal tu non fai meco effetto.
Fa in questo dir ver lui vibrar l’acciaro,
E gli mena una punta in mezzo al petto.
Al crudo colpo suo non fa riparo,
Ben che sia di gran tempra, il corsaletto.
Trapassa dopo il ferro il cuoio, e ’l panno,
Ma ne la carne sua non fa alcun danno.