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LIBRO DUODECIMO.

C
iò, che contò il buon vecchio, al figlio avenne

     Del saggio Priamo Imperator Troiano.
     Non seppe il padre già (ma morto il tenne)
     C’havesse trasformato il volto humano;
     Però con cerimonia al Tempio venne,
     E su’l sepolcro suo superbo, e vano,
     Dov’era solo il nome, e ricchi marmi,
     Fè cantare i funebri, e santi carmi.

Volle al funebre officio Hettorre il forte
     Con tutti i suoi fratelli esser presente.
     Paride sol mancò, che la consorte
     Havea rubata al Re di Sparta absente,
     E ne venia ver le Troiane porte
     Su’l regno, ch’obedir suole al tridente.
     Hor mentre a lei cangiar fà sposo, e loco,
     Mena à la patria sua la guerra, e ’l foco.

Che come il Re di Sparta il furto intese,
     Per l’atto, e per l’amor fatto iracondo,
     Per racquistarla, e vendicar l’offese,
     Unì tutta la Grecia, e mezzo il mondo,
     E poi con mille navi il camin prese
     Per lo regno del sale alto, e profondo.
     Ne saria stato à vendicarsi lento,
     Se l’havesse sofferto il mare, e ’l vento.

Ma nel gran porto d’Aulide per forza
     Fu trattenuta la Pelasga classe,
     Che ’l vento irato, ch’è contrario à l’orza,
     Contra il muro Troian non vuol, che passe.
     À far risplender la cerrina scorza
     Supra l’altar di Giove ogni alma dasse,
     Per provar se l’ incenso, il prego, e ’l lume
     Può placar gli empi venti, e ’l maggior Nume.

À pena ha posto il sacerdote santo
     L’ostia sopra l’altar ricco, et adorno,
     Ch’un lungo serpe appar, dorato il manto,
     Ch’un platano, che v’è, cinge d’ intorno.
     S’alza verso la cima il serpe tanto,
     Ch’ ad otto augelli fa l’ultimo scorno.
     C’ havean nel nido il corpo mezzo ignudo,
     E fegli cibo al dente ingordo, e crudo.