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D’haver, misero me, mi doglio, e pento
     Corso per farti premio à la mia fede;
     Ma non credea, che l’ultimo tormento
     Del nostro amor dovesse esser mercede.
     Due siam, c’habbiamo il tuo bel lume spento,
     Co’l suo veleno il serpe, io co’l mio piede,
     Bench’ io, che ti fei dar le piante al corso,
     Fui più crudele assai, che non fu ’l morso.

Ben era il vincer mio di sommo pregio,
     Ma molto più valea vivo il tuo lume.
     Dunque s’io fui cagion, ch’un tanto egregio
     Splendor mandasse l’alma al nero fiume,
     Voglio quest’alma mia, che più non pregio,
     Render vassalla del tartareo Nume.
     Che l’ombra tua ne la più bassa corte
     Qualche conforto havrà de la mia morte.

Poi che su’l volto essangue hebbe assai pianto,
     E dato al morto labro il bacio estremo,
     Condusse sopra un scoglio il carnal manto,
     E in mar del sasso il fe cader supremo.
     Ma non soffrì di Theti il Nume santo,
     Che restasse il suo cor de l’alma scemo;
     Ma come sopra l’onde à nuoto ei venne,
     Ascose il corpo suo fra mille penne.

La piuma al corpo suo la morte toglie,
     Ne tener sotto al mar gli lascia il petto;
     Si sdegna il cavalier, che l’altrui voglie
     Faccian, ch’egli stia vivo al suo dispetto;
     E per dar fine à le sue interne doglie
     Ripon sott’acqua il trasformato aspetto;
     L’alza la piuma, ei pur sotto s’asconde,
     E tenta senza fin morire ne l’onde.

Gli fa la piuma haver pallida, e smorta
     L’amore, e di colei l’iniquo fato.
     Molto lunge dal petto il capo porta;
     Come l’anitra ha ’l petto ampio, et enfiato;
     Quasi coda non ha; la coscia ha corta;
     Gli è solamente il mar propitio, e grato.
     E perche tenta haver sott’acqua albergo,
     Dal sommergersi suo vien detto Mergo.