Con queste note poi gridando forte
Scopre il naufragio suo piovendo il pianto.
Ó sventurata, e misera consorte
Rivolgi gli occhi al tuo marito alquanto.
Ben conoscer mi dei, se pur la morte
Non m’ha da l’esser mio cangiato tanto,
Ch’io ti rassembri un’altro. hor odi, come
Sommerse il mar le mie terrene some.
Questa sembianza, ove hora il lume intendi,
In tutto è da la carne ignuda, e sgombra;
E che sia il ver, se in me la mano stendi,
La carne nò, ma stringerai sol l’ombra.
In vano i voti tuoi spendesti, e spendi,
Vana di me speranza il cor t’ingombra.
Non ti prometter più tuo sposo fido,
Che ’l suo spirto ha lasciato il carnal nido.
Dapoi che ’l primo dì ne venne manco,
Venne un vento crudel da mezzo giorno,
Che fece al flutto incrudelito, e bianco
Superbo contra il legno alzare il corno.
E renduto che l’hebbe infermo, e stanco,
Fece al legno, et à noi l’ultimo scorno.
Ben ti chiamai, ma il mar crudele, e rio
Scacciò co ’l nome tuo lo spirto mio.
Autor dubbio non è quel, che te ’l dice,
Non è romor di quel, che ’l vulgo crede;
Questi è il tuo caro, e naufrago Ceice,
Che del proprio naufragio ti fa fede.
Hor sorgi, e dammi il tuo pianto infelice,
Si ch’io non vada à la tartarea sede
Senza havere il funebre officio santo,
Senza haver da la moglie il duolo, e ’l pianto.
Non sol finge Morfeo le membra istesse,
Ma con accento tal seco favella,
Che quando ben veduto non l’havesse,
L’havrebbe conosciuto à la favella.
Mostrò, che qualche lagrima piovesse
Per la pietà di lei vedova, e bella;
Volendo poi seccar l’humor, che piove
Co ’l gesto di Ceice il pugno move.
Scioglie la mesta Alcione il pianto, e ’l grido,
E stende fuor del letto ambe le braccia,
Per abbracciar lo sposo amato, e fido,
E trova in vece sua, che l’ombra abbraccia.
Deh dove lasci il tuo vedovo nido;
Che teco venga anch’io, cor mio, ti piaccia.
Tal che la voce sua, di Morfeo l’ombra
Detto cosi dal senso il sonno sgombra.
E, perche al replicato alto lamento
Havean portato i suoi ministri il lume,
Per veder se vi sia, pon l’occhio intento
Piovendo da begli occhi in copia il fiume.
Come no ’l trova poi, cresce il tormento,
E fuor del regio suo gentil costume
Alza le strida al cielo, e senza fine
Percote il volto, e ’l petto, e straccia il crine.
La misera nutrice, che s’accorge,
Come l’afflitta Alcione si percote,
E che l’orecchie à lei punto non porge,
Mentre cerca saper le doglie ignote,
Anch’ella da le parti, onde si scorge,
Stillar fa il duol sopra le crespe gote;
Pur tanto poi la stimula, et essorta,
Ch’al fin questa risposta ne riporta.
Se pensi consolarmi, tu t’inganni,
Ch’Alcione io più non son, non son più nulla,
Che la cagion de miei novelli affanni
In tutto l’esser mio sface, et annulla.
Ahi quanto mal per te ne’ miei primi anni
Il latte al corpo mio desti, e la culla;
Piacesse à Dio, che ’l succo del tuo seno
Fosse stato al cor mio tanto veleno.
In questo dire, alza la voce, e piange,
E più di pria si batte, e ’l crin disface.
Ne men la vecchia il crin canuto frange,
Ne meno al crespo volto oltraggio face.
Qual (dice) novo mal t’affligge, et ange?
Qual guerra à disturbar vien la tua pace?
Qual ti fa desiar fato, empio, e rio
D’haver tratto il velen dal petto mio?