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Ó nasca, ò stia pur’ alto il Re di Delo,
     Ó sia verso il finir del suo viaggio;
     Quivi à lui sempre opponsi oscuro un velo,
     Che non lascia, che faccia al Sonno oltraggio.
     U’ ingombran tante nubi, e nebbie il cielo,
     Ch’ei non vi può mai penetrar co’l raggio.
     Quivi ’l cristato augel non fa dimora,
     Che suol co’l canto suo chiamar l’Aurora.

Per far la guardia al solitario hostello
     Mai pon vi latra il can mordace, e fido.
     Non v’è quel tanto in Roma amato augello,
     Che ’l Campidoglio già salvò co’l grido.
     No’l toro altero, e non l’humile agnello,
     Un mugghiando, un belando alza lo strido.
     Non s’ode mormorar l’humano accento,
     Ne ’l bosco fremer fà la pioggia, ò ’l vento.

Quivi ’l ciel da romor mai non s’offende:
     Tutte le cose stan sopite, e chete.
     Quivi ogni spirto al suo riposo intende,
     Sol vi drizza un suo ramo il fiume Lethe;
     Il qual fra selci mormorando scende,
     E invita il dolce Sonno à la quiete.
     Fioriscon l’herbe intorno d’ogni sorte,
     Che i sensi danno à la non vera morte.

Lo sfondilio non v’è, ne ’l peucedano;
     Ma il solatro, e ’l papavero v’abonda,
     Con l’herbe, onde la Notte empie la mano,
     Per trar dal seme il sonno, ò da la fronda.
     E poi che vede il Sol da noi lontano,
     E ch’ella il nero ciel volge, e circonda,
     Porge quel succo à l’otioso Dio,
     Perche ’l notturno in noi cagioni oblio.

L’entrata non v’ha porta, e non si serra,
     Perche girando il cardine non strida.
     Si siede l’Otio accidioso in terra,
     Ch’à vergognoso fin se stesso guida.
     Al Nume, à cui la Notte i sensi atterra,
     La Pigritia dovea, ch’ivi s’annida,
     Una ghirlanda far di più colori,
     E gia per lo giardin cogliendo i fiori.

Stracciata, scinta, e rabbuffata il crine
     Si move verso il fiore inferma, e tarda:
     Con gran difficultà par che s’inchine;
     E come stà per corlo, anchor ritarda:
     Come bramasse non venirne à fine
     Si gratta il capo, e poi sbadiglia, e guarda:
     E se ben sà, ch’al1 fine ella il dè torre,
     Tutto quel, che far può, fa per no’l corre.

Lo smemorato Oblio risiede appresso
     Al nero letto, dove il Sonno giace:
     Non ha in memoria altrui, ne men se stesso;
     S’alcun gli parla, ei non l’ascolta, e tace.
     Fa la scorta il Silentio, e guarda spesso,
     Se per turbare alcun vien la lor pace:
     E per non far romor mentre anda, e riede,
     D’oscuro feltre ha sempre armato il piede.

Di nera lana, ò di coton s’ammanta;
     Ma di seta non mai vestir si trova.
     Suol con rispetto tal fermar la pianta,
     Che par, che su le spine il passo mova.
     Co’l cenno la favella à l’huomo incanta,
     E fa, ch’accenni: et ei, se vuol, l’approva.
     Co’l cenno parla, e la risposta piglia
     Dal cenno de la mano, e de le ciglia.

In mezzo à l’antro stà fondato il letto:
     D’hebeno oscuro il legno è, che ’l sostiene.
     Ciò, ch’ivi à gli occhi altrui si porge obbietto,
     Dal medesmo color la spoglia ottiene.
     I Sogni, ch’ à l’human fosco intelletto
     Si mostran mentre il Sonno oppresso il tiene,
     Intorno al letto stan di varie viste,
     Quanti dà fiori Aprile, e Luglio ariste.

Tosto, che ’l muto Dio la nuntia scorge,
     Co’l cenno parla à lei sopra la porta.
     Ella à l’incontro anchor co’l cenno porge,
     Che brama al Sonno dir cosa, ch’ importa.
     Com’egli del voler divin s’accorge,
     La fa passar ne l’aria oscura, e morta:
     Ma con la luce sua, com’entro arriva,
     La fa tutta venir lucida, e viva.