Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/412


libro

Ma più di tutti in bocca ha la consorte
     Mentre può respirar lo stanco petto.
     Dice bramar, che la fortuna il porte,
     Come sia morto, innanzi al suo cospetto;
     Si ch’almen possa haver dopo la morte
     Da mano amica entro al sepolcro il letto.
     E co ’l superbo mormorar de l’onde
     Il bel nome d’Alcione anchor confonde.

In questo un nero nuvolo apre il passo
     Ad una frequentissima procella,
     La qual con furia ruinando à basso
     In modo il miser Re fere, e flagella,
     Ch’al fin s’arrende indebilito, e lasso,
     Et orba lascia la paterna stella.
     La qual poi che lasciar non potea il cielo,
     Di nembi oppose al suo bel lume un velo.

Il comito più forte, e più sicuro
     Ne al mal, ne à la procella non s’arrende.
     Il nembo passa intanto iniquo, e scuro,
     Et ei su l’asse al suo sostegno intende.
     Come ver l’alba il mar si fa men duro,
     Si vede appresso un’isola, e la prende.
     L’isola d’Aloneso il piede afferra,
     E gode di toccar l’amata terra.

Tal foco, da la mensa, e da le piume
     Prese il rinato comito conforto:
     Dove cantò con lagrimoso lume
     De la crudel fortuna, e del Re morto.
     E come mentre le salate spume
     Non dier di lui lo spirto al nero porto,
     Sol nomò la consorte, e ’l lodò tanto,
     Che da gli occhi d’ogn’un fuor trasse il pianto.

Ma che giova al nocchiero haver salvato
     Dal mar la vita sua con tanto affanno,
     Dapoi che vuole il suo perverso fato,
     Che dal mar debbia haver l’ultimo danno?
     Per gire à dire era su ’l mar tornato,
     Che si vestisse Alcione il nero panno;
     Ne s’udì mai quel, che del legno avenne,
     Tal che ne l’onde ogn’un sommerso il tenne.

Nel regio, intanto Alcione, alto soggiorno,
     A cui tanto infortunio è anchor nascosto,
     Tien cura d’ogni notte, e d’ogni giorno.
     E, perche ’l tempo suo sia ben disposto,
     Per ambi i manti fà, ch’al suo ritorno
     Vuol, ch’ornin meglio il lor mortal composto.
     E mentre l’occhio essercita, e la mano,
     Si promette un ritorno amato, e vano.

Ad ogni Dio de la celeste corte
     Fa l’incenso fumar su ’l sacro foco:
     Che faccian tornar salvo il suo consorte,
     Ch’altra no ’l tiri à l’amoroso gioco.
     Fra i preghi, ch’ella fea di varia sorte,
     Sol quest’ultimo in lei potea haver loco.
     Ma più d’ogni altro à Giuno ha il prego inteso
     Posto l’odor Sabeo su ’l bosco acceso.

Ogni dì mille volte il camin prende
     Verso Giunone, e porge il prego, e ’l lume.
     Pregata esser la Dea più non intende
     Per chi mandata ha l’alma à nero fiume.
     Onde con queste note à gire accende
     La fida nuntia sua verso quel Nume,
     Che rende ogni mortal del lume privo,
     E morto il fa parer, se bene è vivo.

Iri verso quel Dio prendi il sentiero,
     Che si suol far talhor del senso donno;
     E dì, ch’à l’infelice Alcione il vero
     Scopra, mentr’ei la domina co ’l sonno
     Come il marito al regno afflitto, e nero,
     È giunto, e i preghi suoi giovar non ponno;
     Ch’à lei de sogni suoi mandi qualch’uno,
     Quel, che per questo affar fia più opportuno.

Mille vaghi color tosto si veste
     Iri, e fra ’l ciel supremo, e l’orizonte
     Formando in un balen l’arco celeste,
     Verso il quieto Dio drizza la fronte.
     Fra le Cimmerie altissime foreste
     Una grotta s’asconde à piè d’un monte:
     Dove ne l’humido aere, e senza luce
     A dar posa à se stesso il Sonno induce.