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undecimo. 200

Mentre il portello aperto han quei di sopra
     Per trar via il mar, che sotto in copia abonda,
     E che per via gittarla ogn’un s’adopra,
     Superba, quanto puo, vien dentro un’onda;
     E porta in mar colui, ch’intento à l’opra
     Tiene il portello, e lui co ’l legno affonda.
     Altero il mar per la nova apertura,
     Assalta la città dentro à le mura.

Qual se talhor da fochi, et da tormenti
     La battuta cortina à terra cade,
     Fra mille un de più fieri combattenti
     Spronato da l’honor, che ’l persuade,
     Entra in disnor de le nemiche genti
     Per l’erta, e nova via ne la cittade,
     La qual face il sospetto, e ’l duol maggiore,
     Da poi, ch’ella i nemici ha dentro, e fuore:

Cosi dapoi ch’un’onda dentro al legno
     Ha preso ardir d’offender gl’infelici;
     Cresce dentro il timor, di fuor lo sdegno,
     Dapoi che dentro, e fuore hanno i nemici.
     Sicuri, che gli affondi il salso regno,
     Piangono altri parenti, altri gli amici,
     E chiaman di colui santa la sorte,
     Che ’l funerale officio hebbe à la morte.

A qualche patrio Dio questi fa voti,
     In cui particular suole haver fede,
     E dicendo ver lui versi devoti
     Tende le braccia al ciel, se ben no ’l vede.
     Altri piange i fratelli, altri nepoti,
     Altri il figliuol, che sia pupillo herede.
     Altri per la consorte sente affanno,
     Che resti grave, e vedova il prim’anno.

Ma quel, c’ha sempre in bocca il Re Ceice,
     È de la dolce sua consorte il nome.
     Gli par vederla misera, e infelice
     Graffiarsi il volto, e lacerar le chiome.
     Alcione dolce mia, sovente dice,
     Qual vita fia la tua? qual fato? come
     Ver giudicio farai dopo alcun giorno,
     Che m’habbia il crudo mar tolto il ritorno?

Pur se ben una sol nomina, e chiama,
     S’allegra, che ’l navilio non la serra.
     Volger verso la patria il ciglio brama
     Per salutar la moglie, e la sua terra;
     Ma la notte infelice in modo il grama,
     Il vario corso, e la marina guerra,
     Che non ha più per ritrovar consiglio
     Dove voltar per salutarla il ciglio.

L’arti si veggon già mancar del tutto,
     Perduta in ogni parte hanno la speme:
     Pur mentre cercan fare il legno asciutto,
     Et aiutar le lor fortune estreme;
     Se n’entra altero il crudo, e horribil flutto,
     E co ’l turbin del vento urtano insieme
     Ne l’arbor, che tenea già l’artimone,
     E ’l danno al mar, c’hà tolto anch’il timone.

Piangendo intanto apportan quei di sotto,
     Che ne la prua, ne’ lati, e ne la poppa
     È fesso in mille parti il legno, e rotto,
     E i cunei invola il mar tutti, e la stoppa.
     A questo estremo il comito ridotto,
     Dapoi ch’indarno il legno si rintoppa,
     Cerca co ’l Re dentro à lo schifo, entrare,
     Ma pure allhora il mar l’ha dato al mare.

Qual se Tifeo, Parnasso, ò maggior pondo
     Prendesse su le spalle, e ’l desse al mare;
     Saria sforzato il monte al maggior fondo
     Se dal gran peso suo lasciar portare:
     Tal la galea per forza al più profondo
     Letto del Re marin si lascia andare,
     Poi che lo stare à galla gli è conteso
     Da l’acqua, che la fa di troppo peso.

Il numero maggior del popol Greco
     Seco al fondo maggiore il legno trasse.
     Che dier lo spirto al regno oscuro, e cieco,
     Anchor ch’alcuno à l’aere il capo alzasse.
     Tiensi il comito à un legno, e ’l Re, ch’è seco,
     Si tien su ’l mar su la medesim’asse.
     E mentre l’onda anchora il serba in vita,
     Chiede al socero, e al padre in vano aita.