Siede sopra una rocca un’alta torre,
Che scopre intorno à molte miglia il mare,
Là sù cerca Peleo la pianta porre;
Che quivi il santo officio intende fare.
Montati veggon l’animal, che corre,
E questo armento, e quel cerca atterrare.
Dove fa loro altier tal danno, e scorno,
Ch’al toro nulla val l’ardire, e ’l corno.
Quindi tendendo verso il mar la palma
Peleo, con le ginocchia humili, e chine;
Psamate (disse) Dea cerulea, et alma,
Deh vogli à tanta strage homai por fine.
De l’error, che già fei, pentita ho l’alma,
Contra l’humane leggi, e le divine;
E con quella humiltà, che posso, e deggio,
A la tua maestà mercede io chieggio.
Nulla à quel prego Psamate si move,
Ne il ciel, ne il mar, ne l’aere ne fa segno.
Ben chiaro scorge il nipote di Giove,
Che d’esser essaudito, ei non è degno.
Ma con preghiere raddoppiate, e nove
Theti, che anch’ella è Dea del salso regno,
Rompendo in humil voce la favella,
Ottenne questo don da la sorella.
Come il prego di Theti al segno è giunto,
Nel mezzo al mar si vede acceso un foco,
Come fa sopra l’acqua vite à punto,
Che da la superfice ha l’esca, e ’l loco.
Torta, e lunga piramide in un punto
Finisce, e s’alza al cielo à poco à poco,
Lascia poi tanto basso il mare in flutto,
Che gli occhi il suo splendor perdon del tutto.
Visto dal mare il foco al ciel salito
Theti ver la sorella alzato il grido,
Sicura, che ’l suo prego habbia essaudito,
Co ’l cor le rende gratie humile, e fido.
Gli occhi dapoi co ’l cor santo, e contrito
Dal mar voltaro al sanguinoso lido,
E veggon, dando l’occhio al Lupo altero,
Che la bontà del sangue il fa più fero.
Non molto poi, mentre aventarsi intende
Ad un vitello candido, e maturo,
Scorgon, che ’l piede arresta, e, che no ’l prende,
E fassi bianco il suo colore oscuro.
Tanto, che facilmente si comprende,
Ch’egli è in forma di Lupo un sasso duro;
Che ’l color mostra, e ’l non mutar del passo,
Ch’ei non è più di carne, ma di sasso.
Lodan le Dee del mar, poi se ne vanno
Per celebrare il sacrificio santo
Ne’ campi, dove ha fatto il Lupo il danno,
Che mostra haver lontan di marmo il manto.
Trovatol vera pietra, splender fanno
Il foco su l’altar co ’l sacro canto,
Ridendo quello armento il foco acceso,
Che dal mostro crudel non venne offeso.
Ma non molto però comporta il fato,
Che Peleo stia nel regno di Ceice.
Qual si sia la cagion, prende commiato,
E và sbandito misero, e infelice.
Pur de Magneti il Re benigno, e grato
Luogo nel regno suo non gli disdice;
Purgollo Acasto (e seco il tenne in corte)
Dal grave error de la fraterna morte.
Intanto il Re Ceice il dubbio petto
Turbato da si strani empi portenti,
Onde il fratel cangiò l’humano aspetto,
Ond’ei vide di Chione i lumi spenti,
Pensa passare in Claro al santo tetto
D’Apollo, dove i suoi veraci accenti
Contentan l’huom, che prega humile, e chino
Di quel, ch’ama saper del suo destino.
Ben di Delfo era il Tempio men distante,
Dov’egli il fato anchor dicea futuro,
Ma la guerra crudel del Re Forbante,
Non lasciava il camino esser sicuro.
Però da Claro le parole sante
Pensò impetrar co ’l cor devoto, e puro;
Se ben dovea tentar gli ondosi orgogli,
Verso l’Icaro mar fra mille scogli.