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Passa presso à Callipoli lo stretto,
     E in Frigia se ne và verso Pattolo,
     Ch’anchor d’arena d’or non correa il letto;
     Poi và verso il vinifero Timolo.
     Quivi del monte il vin dolce, e perfetto
     Fè, ch’à dietro restò Sileno solo.
     Lasciò il trionfo andar, fermossi à bere,
     E poi co’l fiasco in man diessi à giacere.

Non vuol però, che giaccia, e s’addormenti
     Fin, ch’alquanto del vin la testa sgrave,
     Ma benche d’andar seco si contenti
     Più d’un Frigio pastor, che scorto l’have.
     Non può far forza à lor modi insolenti
     Da gli anni il miser vecchio, e dal vin grave;
     E cosi coronato, e trionfante
     L’appresentaro al Re Mida davante.

Mida, à cui prima il buon poeta Orfeo,
     Co’l sacerdote Eumolpo havea mostrato
     Le cerimonie sante di Lieo,
     E sopra tutto il suo regio apparato;
     Conobbe il nutritor di Tioneo,
     E l’accettò con volto allegro, e grato;
     Lieto il ritenne à far seco soggiorno
     Fin che ’l dì novo il Sol passò d’un giorno.

L’undecimo Lucifero nel cielo
     Comparso era à far noto à l’altre stelle,
     Che ’l più chiaro splendor, che nacque in Delo,
     Venia per disfar l’ombre oscure, e felle.
     E per fuggir s’havean già posto il velo
     Dal paragon le men chiare facelle,
     Quando il re Mida à Bacco render volle
     L’alunno, che dal vin spesso vien folle.

Lieo co’l suo trionfo altero, e santo
     Già senza havere il suo contento integro,
     Vien con Sileno il Re di Frigia intanto,
     E trova Bacco in Lidia, e ’l rende allegro.
     Come si vide il suo ministro à canto,
     Scaccia egli ogni pensier noioso, et egro;
     Ringratia il Re, che gli ha colui condutto,
     Che fa il trionfo suo lieto del tutto.

E per mostrarsi grato al Re, s’offerse
     D’ogni don, che chiedea, farlo contento;
     Di quante io posso far gratie diverse,
     Se n’ami alcuna haver, di il tuo talento,
     Allegro Mida allhor le labra aperse,
     E per nocivo ben formò l’accento;
     Io bramo, che tal don mi si compiaccia,
     Che tutto, quel ch’io tocco, oro si faccia.

Lo Dio di Thebe grato al Re concesse
     L’amato don, ma ben fra se si dolse,
     Ch’una gratia dannosa egli s’elesse,
     Che l’avaritia ad un mal punto il colse.
     Poi che nel corpo suo tal gratia impresse,
     Ver le superne parti il volo sciolse.
     Allegro il Re di Frigia un’ arbor trova,
     Che vuol di si gran don veder la prova.

D’un’Elce bassa un picciol ramo schianta,
     Perde la verga il legno, e l’oro impetra.
     Prende di terra un sasso, e l’or l’ammanta,
     Tal, che ’l metallo ha in mano, e non la pietra.
     Poi toccando una gleba anchor l’incanta,
     E la fa splender d’or, dov’era tetra.
     Svelle dal campo poi l’arida arista,
     Et ella perde il grano, e l’oro acquista.

Lieto d’un’ arbuscello un pomo prende,
     E mentre, che vi tien ben l’occhio inteso,
     Di subito si lucido risplende,
     Che ne’ giardini Hesperidi par preso.
     In qual si voglia legno il dito stende,
     Fa crescer al troncon la luce, e ’l peso.
     La man si lava, e l’onda cangia foggia,
     E Danae inganneria con l’aurea pioggia.

À pena può capir la sciocca mente
     Le folli concepute alte speranze,
     Pensa acquistar l’occaso, e l’oriente,
     Certo d’haver tant’or, che glie n’avanze,
     Come fa poi, che ’l cibo s’appresenta,
     Cangiar fa il dito tutte le sembianze.
     Subito, che la man s’accosta à l’esca,
     Opra, ch’à lei la luce, e ’l peso cresca.