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LIBRO UNDECIMO.
Le selve, e le ferine menti move
L’altissimo Poeta, e fà, che ’l pianto
Spesso da gli occhi lor trabocca e piove;
Ecco servando il rito allegro, e santo
Del lieto Dio Theban, figliuol di Giove,
Veggon le Tracie nuore, ove la lira
Le piante, i sassi, e i bruti alletta, e tira.
Nel sacro à punto, et honorato giorno,
Che fanno honore à l’inventor del vino,
Trovossi Orfeo tirare à se d’intorno
La fera, il sasso, il fonte, il cerro, e ’l pino.
Mentre di vaghe pelli il fianco adorno
Fan le donne il misterio alto, e divino,
Voltò l’occhio dal mostro insano, e losco
Una, dov’era nato il novo bosco.
Calda dal troppo vino, onde ciascuna
Facea sorda venir la terra, e l’aria,
Disse tal maraviglia, e fè, ch’ogn’una
Volse gli occhi à la selva ombrosa, e varia.
E come piacque à la fatal fortuna,
Al Poeta divin fera, e contraria,
D’ire à vedere à l’insensate piacque,
Come quivi in un giorno il bosco nacque.
Subito, che la prima arriva, e vede
Colui, c’ha nel cantar tanta dolcezza;
Con questo dir l’orecchie à l’altre fiede.
Ecco quel, che le donne odia, e disprezza.
Non ascoltiam, sorelle quel, che chiede
Quest’empia lingua à darne infamia avezza,
Ma prenda dal mio colpo ogni altra essempio;
Che brama tor dal mondo un cor tant’empio.
Com’ha cosi parlato, il braccio scioglie,
Che tenea il legno impampinato, e crudo,
Ma nel volare il pampino, e le foglie
Fanno al divino Orfeo riparo, e scudo.
Tal, che se ben nel volto il tirso coglie,
Ferita non vi fa, ma il segno ignudo.
Da questa un’altra impara, e china à basso
La mano, e per tirar prende un gran sasso.