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nono. 164

Giove, che scorge liberata Creta,
     Vuol, ch’à lo Dio del lume si compiaccia,
     E con la vista sua gioconda, e lieta
     Tutte à un tratto dal ciel le nubi scaccia.
     Compiace ancho Eolo, e i venti irati acqueta,
     E lascia in un balen l’aere in bonaccia.
     Manda Triton lo Dio del salso regno,
     Che faccia ritornar l’onde al suo segno.

Prende tosto Triton la concha attorta
     Pronto verso il suo Re devoto, e fido,
     E donando lo spirto à l’aura morta,
     Fà da l’un polo à l’altro udire il grido.
     Poi rende con la voce ogni onda accorta,
     Che debbia ritornare al proprio nido.
     Si spiana l’onda à poco à poco, e tace,
     E lascia il legno in mar del tutto in pace.

Come manca del mar l’aspro tormento,
     Metton senza indugiar l’altro timone,
     E, perche soffia in aere un dolce vento,
     C’ha volto il soffio ver Settentrione,
     Legan la rotta antenna in un momento
     Al tronco, che restò de l’artimone,
     E di più pezzi di legnami, e tele
     Rifan l’antenne, gli arbori, e le vele.

Giunti che sono à Carpato il pavese
     Legano insieme, e ’l fan notar ne l’onde,
     Che poi che ’l mar per se lo schifo prese,
     Via da smontar non han migliore altronde.
     Vi calar poi più d’un, ch’in terra scese,
     E legò il laccio à le propinque sponde.
     Qui il legno si fornì parte per parte
     Di vele, antenne, remi, arbori, e sarte.

Dal lito con buon tempo il lin poi sciolse
     Il provido nocchiero, et uscì fuori,
     E al vento maestral la mira tolse,
     E solcando andò il mar fra Sime, e Dori.
     Passato c’hebbe Gnido egli rivolse
     A gli Scithi la prua, la poppa à Mori,
     E via solcando il liquefatto vetro
     Lasciò mille isolette, e scogli à dietro.

Da man destra lasciò Nisiri, e Claro,
     E Leria, e Patmo, e à quel lido pervenne,
     Dov’Icaro del ciel soverchio avaro
     Sforzò à cader le troppo alzate penne.
     E havendo il mar tranquillo, e ’l tempo chiaro
     In breve nel canal di Scio si tenne.
     Ver Greco solcò poi l’ondosa spuma,
     Et in Eolia al fin pervenne à Cuma.

Dopo tanto viaggio, e tanta guerra
     Sentita hora dal foco, hora da l’acque
     Smonta Mileto à Cuma, e và per terra,
     E di fermarsi in Frigia al fin gli piacque:
     Dove il Meandro si s’aggira, et erra,
     Che par, che torni spesso, ove già nacque.
     E una città, ch’in breve fu perfetta,
     Fondò, che fu da lui Mileto detta.

Hor caminando per diporto un giorno
     Per l’aggirate vie del patrio fiume,
     Incontra un volto angelico, et adorno,
     E vien seco à incontrar lume, con lume.
     Le parla, e ’n solitario entran soggiorno,
     E premon l’herbe in vece de le piume.
     Figlia era di Meandro la donzella
     Detta per nome Ciane adorna, e bella.

Hebbe di questa una gemella prole
     Dotata d’ogni gratia illustre, et alma,
     E si le lor bellezze uniche, e sole
     Crebber, che sopra tutte hebber la palma.
     E ben del sangue uscita esser del Sole
     D’ambi parea la carnal veste, e l’alma,
     Tanto saper, tanto splendor raccolto
     Havean nel lume interno, e nel bel volto.

L’un fu garzone, e Cauno fu nomato,
     L’altra fu detta Bibli, e fu fanciulla.
     E s’ei d’ogni bellezza era dotato,
     Ella ogni altra beltà fea parer nulla.
     E da che l’uno, e l’altro hebbe lasciato
     La prima età del latte, e de la culla,
     S’amar d’un vero amor si caldo, e interno
     Quanto altri mai, d’amor però fraterno.