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Rafforza il vento rio torbido, e fero,
     E in un momento il mar rompe, e confonde.
     Alza l’ irato mare il grido altero,
     E manda fin’ al ciel superbe l’onde.
     Apron le nubi il panno oscuro, e nero,
     E danno il passo à le celesti gronde.
     E mentre freme in giù la pioggia, e ’l gielo,
     Di mille tuoni, e fuochi avampa il cielo.

Tosto con minor vela il vento prende
     In poppa il legno stanco, afflitto, e rotto,
     E dentro il palamento si distende,
     E ciò, che ’l nocchier dice esperto, e dotto.
     Sciolta dal ferro poi la turba rende,
     E falla ad un ad un serrar di sotto,
     E tutto in opra pon l’ ingegno, e l’arte
     Per vincer contra il mar si fero Marte.

Dal giel, da la procella, e da la pioggia,
     E da l’onda superba, et inhumana
     Percosso il miser legno hor cade, hor poggia,
     E prende il camin dritto à tramontana.
     Quattr’hore andò con la gonfiata poggia
     Con l’onda ogni hor più incrudelita, e strana
     Dal cominciar de la seconda guerra
     Senza scoprir la desiata terra.

Quel gran camin, ch’ in una notte corse,
     Il giorno racquistò tutto in poc’hore,
     Che mentre dal sentier dritto si torse,
     Men che potè il nocchier, si spinse in fuore.
     Ma poi che gire al suo camin s’accorse,
     E in tanto male il vento hebbe in favore,
     L’antenna da rispetto al tronco strinse,
     E con vela maggior la quercia spinse.

Dapoi che di lontan vide lo scoglio,
     Cercò il padron d’avicinarsi al lito,
     E mentre, che fendean l’ondoso orgoglio,
     Discorreano fra lor qual fosse il sito.
     Carpato disse alcun, ma fe su’l soglio
     Conoscer, ch’era Caso, il più perito.
     Si spinge à quella volta il buon nocchiero,
     Per discoprir quel, che s’ è apposto al vero.

Non molto và, ch’un’Isola à man manca
     Riconosce il nocchier molto maggiore,
     Per dar riposo à l’alma afflitta, e stanca
     La prima, e più propinqua, ma minore.
     Ma per quel, ch’al distrutto legno manca,
     L’altra, ch’ è detta Carpato, è migliore.
     Ne molto dal camin torcendo il legno
     Solca ver la miglior l’ondoso sdegno.

Co’l vento, e la fortuna in poppa stare
     Non potea un’hora il legno à prender terra,
     Quando ecco vien crudel la botta, e ’l mare,
     E ’l misero timon dal legno sferra,
     Ne più potendo la galea voltare
     La vela per traverso il vento afferra,
     E grava l’arbor tanto, e ’l fà si chino,
     Che ’l rompe, e dona al mar l’arbore, e ’l lino.

Ben si veggon perduti il mare, e ’l vento,
     E più che fosse mai superbo, e grave,
     L’altro timon, le grosse onde, e ’l tormento
     Tempo non dan, ch’al suo luogo s’ inchiave.
     Hor mentre fa ciascun certo argomento,
     Che ’l mar gli affondi, e stà piangendo, e pave;
     S’apron le nubi, e danno al Sol passaggio,
     Et ei ne la galea splender fa il raggio.

Quando Mileto il vivo ardor paterno
     Ne la morta galea risplender vede,
     Le mani alza, e le luci al regno eterno,
     E al Sol mercè con queste note chiede.
     Padre se pure è ver, che ’l sen materno
     Del tuo seme divin quà giù mi diede,
     Rivolgi alquanto à me pietoso il lume,
     E salva il sangue tuo da queste spume.

Il Sol, ch’al suo viaggio intento, e fiso
     Talhor non guarda à l’opre de’ mortali,
     Quando apre l’occhio al doloroso viso
     Del figlio, e scorge i suoi propinqui mali,
     Mosso à pietà con ben fondato aviso
     À tre de raggi suoi fa batter l’ali,
     E ne manda uno ad Eolo, e l’altro dove
     Alberga il Re del mare, e ’l terzo à Giove.