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Saturno si dolea d’esser si stanco,
     Si vecchio, freddo, inutile, e mal sano,
     Che mal potea più trar l’antico fianco
     Per lo viaggio suo tanto lontano.
     Vedendo il suo Titon canuto, e bianco
     L’Aurora, le parea pur troppo strano,
     Si bella essendo, e di si vago aspetto,
     D’havere huom si disutile nel letto.

Cerere à Iasio suo l’antiche membra,
     Che nel suo primo fior tanto le piacque,
     Cerca rinovellar, che si rimembra
     Del tanto dolce amor, che da lui nacque,
     Riguardando Erittonio, à Vulcan sembra,
     Che s’lolao si vecchio al zio dispiacque,
     Si vecchio il figlio à lui dispiace anchora,
     E chiama Giove ingiusto, e la sua nuora.

Quella Dea anchora à questa parte arrise,
     Cui colse in fallo quel, che ’l mondo aggiorna,
     E volea anch’ella patteggiar d’Anchise,
     Di poter dare à lui l’età più adorna.
     La gran sedition, che in ciel si mise,
     Piu ogni hor contra di Giove alzò le corna,
     Ogn’uno havea parenti, ò amici imbelli,
     À quai bramava dar gli anni più belli.

E vi fu qualche Dio forte, e robusto,
     Ch’ osò di dir, ma ne’ cerchi in disparte,
     Privisi homai quel Re d’essere Augusto,
     Che le gratie del Ciel si mal comparte;
     Et eleggasi un Re, che sia più giusto.
     Ma Giove havendo appresso Hercole, e Marte,
     Con fronte irata à tutti il parlar vieta,
     E con queste parole ogn’uno accheta.

S’alcuna riverentia al Re si porta,
     Tacete, e date à me l’orecchie intanto,
     Ditemi ciechi, e dove vi trasporta
     L’ambition nel regno eterno, e santo?
     Puot’ esser mai, che la celeste porta
     Chiud’alma, che di se presuma tanto ?
     Ch’osi parlar ne’ regni alti, e beati
     Di voler superar gli eterni fati ?

Da che fu l’alto ciel, fu il fato eterno,
     E ’l fato è quel, che in Thebe ha fatto oprarme,
     Che giovane Iolao gli anni, e ’l governo
     Rihabbia anchor, non la superbia, e l’arme.
     Vuol del fato il decreto alto, e superno
     (Come ha di Theme à noi predetto il carme)
     Che i figli d’Almeon troppo per tempo
     Debbian far forza à la natura, e al tempo.

Voi regge il fato, e me, per far, che meglio
     Ve ’l comportiate, e contra andar non posso,
     Ch’à Radamanto, e ad Eaco infermo, e veglio
     La troppa età non curverebbe il dosso.
     E s’amate di ciò più chiaro speglio,
     Volgete gli occhi alquanto al re Minosso,
     Che vecchio, e infermo oppresso è da la guerra,
     E fe col nome sol tremar la terra.

E se rivolgerete à Creta il ciglio,
     Vedrete come ogn’un schernisce, e sprezza
     Il mio impotente, e abbandonato figlio
     Per l’affannata, e debile vecchiezza.
     Che quando à gli anni dar potessi essiglio,
     Farei tornarlo à la sua prima altezza;
     Ne Mileto ardirebbe il suo cognato
     Di volergli involar l’alma, e lo stato.

Ma s’egli guerreggiar per li tropp’anni
     Non può, farò, che co’l favor del cielo
     Sarà provisto à suoi Cretensi danni
     Co’l più rapido ardor, che spegna il gielo.
     Subito monta i più sublimi scanni,
     Dove è riposto il più dannoso telo,
     E fatto innanzi al tuon splendere il lampo,
     Aventa irato, ov’ ha Mileto il campo.

Quando da pria gli Dei volser la luce
     Ver Creta, e vider disprezzato, e abbietto
     Quel Re, che fu si chiaro, e invitto Duce,
     Ogni sedition scacciar dal petto.
     E si piegar di non dare à la luce
     Quel, che già detto havean, c’hebber sospetto;
     E tanto più, quand’ei s’armò la mano
     De l’arme inevitabil di Vulcano.