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nono. 159

Le braccia si fan piè, la chioma bionda
     D’un biondo, e vago pel la fa coprire:
     La figura del corpo, e lunga, e tonda,
     Et ha poca persona, e molto ardire.
     E, perche la sua pena corrisponda
     A la bugia, ch’à lei fè il pugno aprire,
     Nel partorir la Dea sdegnata vuole,
     Ch’onde uscì la menzogna, esca la prole.

Odo, ch’altrove Donnola si chiama,
     Mustella qui da gli huomini fu detta.
     Le nostre case anchor frequenta, et ama,
     E molto de la caccia si diletta.
     E si l’honor ne le sue imprese brama,
     Ch’insino à crudi serpi impugna, e aspetta.
     E per quel, ch’alcun rustico mi dice,
     Sopra ogni augello ha in odio la cornice.

M’increbbe in vero assai de la sua sorte,
     Ch’oltre, ch’io la tenea come sorella,
     M’havea rubata à l’evidente morte
     Con la sagace sua mente, e favella.
     Hor preghiam figlia la celeste corte,
     Che quella, che farai, prole novella
     Esca à goder senza tua doglia il mondo,
     E ’l favor di Lucina habbia secondo.

Preghiam, diss’ella, anchor l’eterna cura,
     Che l’odio di Giunon ver noi sia spento,
     Si che la prole mia nasca sicura,
     Che già nel sen matura haver mi sento.
     Ma colei, che cangiò forma, e natura,
     Rinovella il mio duolo, e ’l mio tormento:
     Che mia sorella Driope mi rimembra,
     Ch’innanzi à gli occhi miei prese altre membra.

E poi che posson te commover tanto
     D’una ministra tua le forme nove,
     Non ti maravigliar del molto pianto,
     Che ’l mio dolente cor per gli occhi piove.
     Ch’una sorella mia sott’altro manto
     Io vidi, e vò contarti, e come, e dove,
     Se l’intenso dolor, che ’l cor percote,
     Potrà dar luogo à l’affannate note.

Hebbe il mio padre Eurito un’altra figlia
     Driope, ma non però de la mia madre:
     Stupir faceano ogn’un di maraviglia
     Le sue rare bellezze alme, e leggiadre.
     Pria che facesse à lei cangiar famiglia
     Il troppo tardo à maritarla padre,
     Il biondo Dio, ch’à noi distingue l’hore,
     La vide, e ’l virginal le tolse honore.

Ma fu di sì sublime, e raro ingegno,
     Di sì gentile, e glorioso aspetto,
     Ch’ogni huom d’Echalia, ò d’altro esterno regno
     Bramava haverla, e far comune il letto.
     Fra rnolti al fin ciascun più illustre, e degno
     Andremon fu da miei parenti eletto,
     Cui piacque tanto seco esser legato,
     Che sopra ogni huom dicea d’esser beato.

Limpido ne l’Echalia un lago siede
     Cinto di dolci, e ameni colli intorno,
     Lo cui lito fecondo esser si vede
     D’arbori, e valli, e vaghi prati adorno.
     Cominciando de colli al basso piede,
     Fin dove più superbo alzano il corno,
     Son mirti, e fanno un cerchio ameno, e vago,
     A guisa d’un theatro, intorno al lago.

Era venuta Driope à queste sponde
     Per honorar co ’l cor devoto, e grato
     Con ghirlande di fior tessute, e fronde
     Le Dee, c’habitan l’onda, il colle, e ’l prato,
     Calcando i fiori già vicino à l’onde
     Con un figliuol, che in sen s’havea portato,
     Ch’anchor l’anno primier non havea pieno,
     Soave peso al suo candido seno.

Mentre à veder del monte il piano, e l’erto
     Le luci vaghe sue move per tutto,
     Trova, che ’l piè del gran periglio incerto
     Vicino à un Loto ha il suo mortal condutto,
     Che ’l bel purpureo fior havea già aperto
     Speme à mortai del suo futuro frutto.
     Stende ella il braccio, e prende il fior vermiglio
     Per dar trastullo al suo vezzoso figlio.