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Come se ’l dosso suo la serpe priva
     Del manto, c’havea già, si rinovella,
     E tolto il vecchio vel, che la copriva,
     Vien più forte, più giovane, e più bella:
     Tal l’effigie d’Alcide, eterna, e diva,
     Tolto il vel, che copriva l’ interna stella,
     Più illustre appar di pria, si fà maggiore,
     E merta più, ch’ogn’un le faccia honore.

Come restar de la terrena veste
     Vede il rettor del cielo il figliuol privo,
     Ver Borea il chiama al regno alto, e celeste
     Su’l carro trionfal pomposo, e divo.
     À la Lira vicin di stelle il veste,
     Secondo andò mentre qua giù fu vivo.
     Co’l piè sinistro il capo al drago aggrava,
     Tien l’un pugno il leon, l’altro la clava.

Come l’alme locar celesti, e sante
     La nova effigie sua nel più bel mondo,
     Gravò tanto le spalle al vecchio AtIante,
     Che quasi sostener non potè il pondo.
     Se ben non disse il figliuol di Peante,
     Che passò Alcide al suo viver secondo,
     Com’ei gli havea commesso, il mondo accorto
     Quando più no’l rivide, il tenne morto.

Che portato la fama havea per tutto
     Non senza universal cordoglio, e pieta,
     Dove il don di quel lin l’havea condutto,
     E come, e con chi andò nel monte d’Eta.
     Non si seppe altro poi: comun fu il lutto:
     Sol ne mostrò Euristeo la fronte lieta,
     Che per la gelosia, c’havea del regno,
     Mostrò d’esserne allegro à più d’un segno.

Ne sol di questo ei sol s’allegra, e ride,
     Ma sol persegue anchor mortal nemico
     I figli, che restar del forte Alcide,
     Ch’eran fuggiti al Regno di Ceico.
     Quando la madre sua priva esser vide
     De nipoti, e di lui l’albergo antico,
     Di si degno figliuol pianse la morte,
     De nipoti l’essilio, e l’empia sorte.

Sol ne l’albergo havea la mesta Iole,
     Che d’Hillo figliuol d’Hercole era moglie,
     La qual nel grave sen tenea la prole,
     E già temea de le proprinque doglie.
     Hor mentre Almena misera si dole,
     Ch’à tanto mal la morte non la toglie;
     Vede guardando il sen, c’havea la nuora,
     Che del suo partorir vicino è l’hora.

E havendo in mente anchor l’aspro tormento,
     Che sentì quanto al mondo Hercole diede,
     Disse, tenendo in lei lo sguardo intento.
     Prego ogni Dio de la superna sede,
     Che di placar Lucina sia contento,
     C’habbia nel partorir di te mercede.
     Che non habbia ver te quell’empia mente,
     C’hebbe ver la tua socera innocente.

Apollo il fin premea del nono segno
     Dal dì, che mi fe grave il maggior Nume,
     E giunto era quel tempo illustre, e degno,
     Che dovea dare il grande Alcide al lume.
     Et io, c’havea nel sen si raro pegno,
     Con immenso dolor premea le piume,
     E ben vedeasi al ventre ampio, e ripieno,
     Che Giove era l’auttor di tanto seno.

Era dal troppo duolo homai si vinta,
     Ch’io non potea più sofferir le pene,
     E non so come io non rimasi estinta,
     E tremo anchor qualhor me ne soviene.
     Sette volte havea il Sol la terra cinta,
     Dal Gange andando in ver l’Hesperie arene;
     Sette volte la Dea, ch’oscura il giorno,
     Menato il carro havea stellato intorno:

E anchor l’ insopportabil mio dolore
     Mi facea al cielo alzar continuo il grido,
     Ne v’era modo à far, che ’l parto fuore
     Potesse uscir del suo materno nido.
     Ben chiamava io Lucina in mio favore
     Le man tendendo al Regno eterno, e fido.
     E ben corse Lucina à tanto affanno,
     Ma non già per mio ben, ma per mio danno.