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Dunque in Egitto debellai quell’empio
     Busiri, c’havea il cor si crudo, e strano,
     Che i peregrin facea morir nel tempio,
     E tutto lo spargea di sangue humano?
     Dunque feci d’Anteo l’ultimo scempio
     Ch’era non men di lui crudo, e profano?
     E tolsi al seme human danno si certo,
     Per haverne dal ciel poi questo merto?

Uccisi pur quel forte Gerione,
     Che con tre corpi à l’huom solea far guerra.
     Domato il can trifauce di Plutone
     Rendei, quando passar volli sotterra.
     Le ricche poma d’or tolsi al dragone
     Quando co’ piè calcai l’Hesperia terra.
     E tante prove, e imprese alte, e divine
     Mertan d’haver si miserabil fine?

Non superai quel bue nel Ditteo sito,
     Che die tant’alme al regno atro, e profondo?
     Non sa l’Elide quel, ch’io fei d’Erito,
     Che distruggea co’l suo crud’arco il mondo?
     Non sa l’Arcadia, e lo Stinfalio lito,
     S’io tolsi lor l’ insopportabil pondo
     De gli augei, che di ferro havean le piume,
     Le cui grand’ale al Sol toglieano il lume?

Faccia il bosco Parthenio per me fede,
     Faccialo ogni pastor, ch’ivi soggiorna,
     C’hebbi più forte il cor, più presto il piede
     Del cervo, ch’ivi d’oro havea le corna.
     À chi reggea ne l’Amazonia sede
     Tolsi la cinta, e l’oro, ond’era adorna.
     Domai i Centauri non domati unquanco,
     E tolsi l’alma al lor biforme fianco.

Condussi ad Euristeo vivo il cinghiale,
     Che de la bella Arcadia era il flagello,
     E fu la vista sua superba tale,
     Che s’ascose Euristeo per non vedello.
     Quel serpe, che prendea forza dal male,
     Vinsi, che per lo danno era piu fello,
     Che raddoppiava ogni hor l’ancise creste,
     E d’un’alma privai ben mille teste.

Non vidi io quei cavalli alteri, e crudi,
     Ch’in Tracia si pascean di carne humana?
     E mille corpi lacerati, e ignudi
     Giacersi entro à la lor nefanda tana?
     Non tolser l’alte mie fatiche, e studi
     À loro et al lor Re l’alma profana?
     Non fu cagion questo medesmo Alcide,
     Che ’l lor presepio più quel mal non vide?

Queste medesme braccia non fur quelle,
     Che fecer, che ’l leon Nemeo morio?
     La cui superba, e smisurata pelle
     Fu tal, che fece un manto al corpo mio?
     Non fei passare à l’ombre oscure, e felle,
     L’alma di Caco à ber l’eterno oblio?
     E se ’l ciel va di tante stelle adorno,
     No ’l sostenni io sù queste spalle un giorno?

L’irata empia ver me moglie di Giove
     Homai di tanto comandarmi è stanca;
     Et io, che fei le comandate prove,
     L’alma hò più al far, che mai disposta, e franca.
     Ma queste pesti mie crudeli, e nove
     Fan la forza del corpo inferma, e manca.
     Ne l’arme, e le man pronte, e l’alma ardita
     Ponno al mio novo mal porger aita.

Io dunque, ò Dei de la celeste corte,
     Che di mostri si rij purgato ho il mondo,
     Debbo con si infelice, e cruda morte,
     Passar dal primo al mio viver secondo?
     E godrassi Euristeo valido, e forte
     Un tranquillo riposo, almo, e giocondo?
     Il qual non solo à mostri non fa guerra,
     Ma ogni hor di nove infamie empie la terra.

E sarà poi quà giù chi creder possa,
     Che siano Dei? che sia ragion nel cielo?
     Sente in questo l’ardor, ch’è giunto à l’ossa,
     Dar più duolo, e piu danno al carnal velo.
     Qual toro, che sentita ha la percossa,
     E sente anchor su’l dosso affisso il telo,
     Ne vede il feritor, s’aggira, e scuote,
     Ne da torsi à quel mal via trovar puote.