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nono. 156

Morì da poi la misera donzella,
     C’hebbe del suo lavoro il panno pieno.
     Ma la figlia d’Eneo si pensò, ch’ella
     Morisse d’altro mal, che di veleno.
     Quando la freccia avelenata, e fella
     Passò il Centauro rio del tergo al seno,
     Del tosco empio de l’hidra il sangue sparse,
     E questo fu il velen, che la donna arse.

Celò per vendicarsi il mostro il vero,
     E la veste, che vide avelenata,
     Diede à la donna incauta con pensiero,
     Che se mai gelosia fosse in lei nata,
     L’havesse à dare al suo marito altero,
     Per esser più da lui d’ogni altra amata.
     Per questa strada il mostro empio previde
     Di far morire il suo nemico Alcide.

Misera il tanto lagrimar, che giova?
     Ond’è, che turbi il tuo stato tranquillo?
     Questa, ch’amica fai d’Alcide nova,
     Sposa al comun figliuol sarà dett’Hillo.
     Deh non venire à la dannosa prova,
     Che de la morte sua cerchi vestillo.
     Che come Lica à lui porti le spoglie,
     Misera perderai d’esser sua moglie.

La gelosa consorte al fin conchiude
     Di dare al servo l’infelice manto,
     Ne sà, che quelle vesti inique, e crude
     Non son cagion d’amor, ma ben di pianto.
     La porta Lica, e su le carni ignude
     Per celebrare il sacrificio santo
     Ponsela Alcide, come à lui rapporta
     Il messo de la donna poco accorta.

Vestito c’ha l’avelenato lino
     La selva splender fa sù i santi marmi,
     E ’l core, e gli occhi al pio culto divino
     Intende, e canta i gloriosi carmi.
     Sparso à pena v’havea l’incenso, e ’l vino,
     Che ’l punser del velen le spietate armi.
     Dal foco acceso, e dal calor del petto
     Scaldossi, e prese forza il lino infetto.

La forza del venen più ogn’hor s’accende,
     E con più rabbia le sue membra assale,
     Ne sol la pelle à l’infelice offende,
     Ma passa insino à l’ossa empia, e mortale.
     Co ’l solito valore ei si difende,
     E tace, e superar pur cerca il male.
     E pur vorria dentro al carnal suo nido
     Tener per forza in freno il pianto, e ’l grido.

Ma fù talmente al fin piagato il dorso
     Dal crudo ardor de l’infettato velo,
     Ch’à la bocca allentò per forza il morso,
     E lasciò andar l’irate strida al cielo.
     Licinnio, e un’altro poi move co ’l corso
     Ver le risposte del signor di Delo,
     Per impetrar rimedio à l’empia peste,
     Che rende al corpo suo l’ignota veste.

Vinto poi dal dolor, l’ignoto panno,
     Dal corpo offeso suo stracciar si sforza,
     E in vece di giovar maggior fa il danno,
     Che straccia seco anchor l’humana scorza.
     Cresce al miser mortal l’ira, e l’affanno,
     Cresce al crudel velen l’odio, e la forza.
     E con tal foco à lui piaga la pelle,
     Che fa le strida andar fin’à le stelle.

Tende poi verso il sempiterno regno
     Con questo dir l’addolorata palma,
     Godi Giunon del mio tormento indegno,
     Di vedermi disfar la carnal salma.
     Satia il tuo crudo cor, satia il tuo sdegno,
     Vedi patir la miserabil alma.
     Godi vedendo il mio fine, empio, e rio
     Haver risposto in tutto al tuo desio.

E s’impetrar pietà l’empia mia sorte
     Puote anchor da quel cor, ch’odio mi tiene,
     Tu, che d’ogni empio cor m’odij più forte,
     Togli quest’alma afflitta à tante pene.
     Però che ’l don, ch’io chieggio de la morte,
     È don, ch’à la matrigna si conviene.
     Non mi mancar poi che ’l mio male è tanto,
     Che può impetrar fin da nemici il pianto.