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nono. 153

Gli dico à l’incontr’io, ch’un huom mortale
     Fà grand’error, se si pareggia à un Dio.
     Non l’havea anchora il suo corso fatale
     Fatto di quei del regno eterno, e pio.
     Io son signor d’acqua infinita, e tale,
     Che fa chiaro per tutto il nome mio,
     E vò per lo tuo regno illustre, e altero,
     Ne genero di te sarò straniero.

E s’ei si gloria haver con mille mostri
     Durata per Giunon tanta fatica:
     Tutto il suo dir non vò, ch’altro ti mostri,
     Se non, ch’egli ha la Dea del ciel nemica.
     Non noccia almeno à gli altri merti nostri,
     S’ho sempre à voti miei Giunone amica:
     Ne mi convien per obedire à lei
     Espormi à mille danni ingiusti, e rei.

Se per far tue le sue membra leggiadre,
     Tu per la nobiltà vuoi farti avanti,
     Se la mogle d’Anfitrio à te fu madre,
     Come vien tu à regni eterni, e santi?
     Che se vuoi dir, che Giove ti sia padre,
     Disceso d’adulterio esser ti vanti.
     E se pur vuoi negar d’esser bastardo,
     Ti fai del maggior Dio figliuol bugiardo.

Mentre il cerco abbassar con questo oltraggio,
     Volge ver me la vista oscura, e fella,
     E nel parlar di me più parco, e saggio,
     Senza dar biasmo à me cosi favella.
     La forza à me servir suole, e ’l coraggio,
     E più pronta ho la man, che la favella,
     E pur, ch’abbatta te con questa palma,
     Habbi pur tu nel favellar la palma.

Tutte ignude egli havea le braccia, e ’l petto.
     Sol d’un fero Leon si copria il dorso.
     La cui testa crudel con crudo aspetto
     Gli armava il capo, e quel tenea co ’l morso.
     La pelle inferior copria l’obbietto,
     Che vergognoso fà l’human discorso.
     Cosi vestito, e tutto il resto ignudo
     Ver me si mosse impetuoso, e crudo.

Io, che conosco in lui l’accese voglie,
     C’ha di mandarmi perditore in terra,
     Per guadagnar la desiata moglie
     Non con altra ragion, che con la guerra,
     Getto dal dosso mio le verdi spoglie,
     E ciò, che con la man meglio s’afferra,
     E sol lascio al mio corpo tanta fronde,
     Che quel, che debbe ogni huom celar, m’asconde.

Le gambe allargo, e in terra ben le fondo,
     E oppongo (poi che non habbiam altr’arme)
     Le braccia, e in ogni parte altier rispondo,
     Ne lascio al fero aspetto spaventarme.
     E giro il corpo, e l’occhio, e fo secondo
     Veggo aggirarsi lui per afferrarme,
     Ne men di lui disposto à la contesa
     Cerco d’esser il primo à far la presa.

Poi che si vede haver tentato in vano
     D’imprigionarmi hor l’uno hor l’altro braccio;
     Però ch’à lui fà sdrucciolar la mano
     Il continuo sudore, ond’io mi sfaccio:
     Alquanto si ritrahe da me lontano,
     E, perche più il mio humor non gli dia impaccio,
     China le mani à terra, e si risolve
     V’empir le palme sue di secca polve.

Anch’io mi chino, e coraggioso il guardo,
     E con la terra fo la man più franca.
     Per afferrarmi ei vien fero, e gagliardo
     Hor con la destra palma, hor con la manca.
     Le braccia oppongo, e in lui fermo lo sguardo,
     Acciò che non mi stringa ò ’l collo, ò l’anca;
     E mentre l’un con l’altro s’incatena,
     Ei me di polve, io lui spargo d’arena.

Egli, che del lottare era maestro,
     E sapea dove più s’offende altrui,
     M’annoda con la manca il braccio destro,
     Stringo io co ’l pugno destro il manco à lui.
     E ben, ch’io sia più grave, egli è più destro,
     E meglio scorge gli avantaggi sui.
     Hor mentre l’inimico ogn’un rispinge,
     L’un braccio sciolto, e l’altro anchor si stringe.