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Come l’Oreada Dea di lei s’accorge,
     Si stà tutta paurosa, e non s’appressa,
     Che con tal rabbia trangugghiar la scorge,
     Che teme forse esser mangiata anch’essa.
     Ó per non s’affamar lontan le porge
     Con breve dir l’ambasceria commessa.
     Pur se ben vide à lei lontan la fronte,
     Tornò quasi affamata al patrio monte.

Se ben l’ingorda Fame è ogni hor contraria
     À l’opre sante de la Dea Sicana,
     Non hà in questo da lei la mente varia,
     Anzi corre à infettar l’alma inhumana.
     Ne vien contra Austro à vol fendendo l’aria,
     E giunge à la magione empia, e profana,
     E ritrova, ch’un sonno alto, et intenso
     Ha tolto à quell’empio huom la mente, e ’l senso.

Con l’arrabbiate man tutto l’abbraccia,
     Ch’ad infettarlo in ogni parte aspira,
     E soffia pur ne l’infelice faccia,
     E dentro al petto suo se stessa spira.
     E mentre, ch’egli l’aura hor prende, hor scaccia,
     Lo spirto de la fame inghiotte, e tira.
     Si cangia il sangue in aere, e fuor ne viene,
     E ’l soffio de la rabbia empie le vene.

Com’ogni vena sua fatt’hà digiuna,
     E impresso il cor de l’arrabbiata voglia,
     Torna à gli scogli suoi per l’aria bruna
     À cor la steril sua radice, e foglia.
     La nova d’Eresittone fortuna
     Già l’esca in sogno à masticar l’invoglia,
     E secondo, che ’l sogno il cibo finge,
     Il dente v’affatica, e l’aura stringe.

Ma poi, ch’insieme il sonno, e ’l sogno sparse,
     E sentì quell’ardor, ch’entro l’arrabbia,
     Fece, che in copia la vivanda apparse,
     E ne fe dono à l’affamate labbia.
     Ma quanto più mangiò, tanto più n’arse,
     E crebbe del mangiar maggior la rabbia.
     Cerere, e Bacco, e con la copia il corno
     Donato al ventre havria tutto in un giorno.

Se si diporta, ò se negotia, ò siede,
     Ó se per riposar si dona al letto,
     E desto, e in sogno la vivanda chiede,
     Ne satio render può l’ ingordo petto.
     Cio, che la terra, e ’l mare, e ’l ciel possiede,
     Dimanda, e dona all’arrabbiato affetto.
     Ne i pesci, ne gli augei, ne i grossi armenti
     Bastan per satollar gli avidi denti.

L’armento, il pesce, il gran, la vigna, e ’l frutto
     Supplir non ponno al ventre suo digiuno.
     Fà gire ogni hor per l’avido condutto
     Vivanda nova al suo corpo importuno.
     E quel, che può supplire al popol tutto,
     Non può (chi ’l crederia) supplire ad uno.
     Che mentre gode il cibo, il cibo brama,
     E quanto più trangugghia, più s’affama.

Si come il mar nel suo capace seno
     Tutti i fiumi terreni inghiotte, e serra,
     E satollar giamai no’l ponno à pieno
     Tutte l’acque perpetue de la terra:
     Cosi il miser mortal non è mai pieno,
     Se ben cibo perpetuo il dente afferra.
     Che non sol l’esca in copia à lui non giova,
     Ma sete induce in lui d’altr’esca nova.

Come mai non ricusa il bosco, e l’esca
     La fiamma, ch’alta al ciel manda la vampa,
     Ma il novo cibo aggiunto fà, che cresca
     Tanto maggior la sua vorace lampa;
     E quanto piu la selva in lei rinfresca,
     Tanto più ne divora, e più s’ vampa;
     E chi il cibasse, crescerebbe il foco
     Tanto, che ’l mondo à lui sarebbe poco:

Cosi, se l’ infelice il cibo prende,
     Et à la gola cupida compiace,
     Non la satolla, anzi l’ardore accende,
     E maggior forza accresce à la fornace.
     E più, che le porge esca, più n’attende,
     E diventa più rapida, e vorace.
     Ne può supplire al suo arrabbiato zelo
     Quanto può dar la terra, il mare, e ’l cielo.