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Segue egli di ferir sdegnato, et empio,
Et ogni servo suo fa, che seco erra,
Che fatti accorti dal passato essempio
Fan con mill’altri colpi al tronco guerra.
Già già minaccia il ruinoso scempio
L’arbor superbo, e già la cima atterra,
E schianta più d’ogni altro altero, e grosso
Mill’altre piante, à cui ruina adosso.
Le Driade meste, e attonite del danno,
Commesso dal sacrilego homicida,
Squarciano i bei crin d’or, squarciano il panno,
Piangendo la sorella amata, e fida.
S’ornan di veste oscure, e in fretta vanno
Empiendo il ciel di dolorose strida,
E fan la fertil Dea del danno accorta,
Perc’habbia à vendicar la selva morta.
L’alma benigna Dea da l’ ira vinta,
Ch’ogni mente più pia talhor commove,
Consente lor, ch’ogni pietà sia estinta
Ver l’offensor del santo arbor di Giove.
E fra se volve à la vendetta accinta
Le pene, che può dar più crude, e nove.
Mille pene hàda far pietate altrui,
Ne degno di pietà posson far lui.
Risolve al fin, che le sue crude pene
Debbian venir da la noiosa fame,
E che quanto più fa le canne piene,
Tanto più da mangiar dimandi, e brame:
Si ch’al fin consumato ogni suo bene,
Rompa à la vita ria Cloto lo stame.
Fra mill’altri tormenti acerbi, e rei,
Questo più piacque à l’Amadriade, e à lei.
E s’à la fame Cerere presente
Potesse stare alquanto, e sopportarla,
Ov’ella hà sempre asciutto, e ingordo il dente,
Sarebbe ita in persona à ritrovarla.
Hor poi, che ’l fato eterno no’l consente,
Vuol, ch’una alpestre Dea vada à pregarla.
E con queste parole accorte, e pronte
La Dea del pian mandò la Dea del monte.
Stà ne l’estrema Scithia un monte alpestro,
Che d’ogni pianta fruttuosa è ignudo,
Sterile d’ogni spiga, e ben terrestro,
Per lo freddo, che v’hà maligno, e crudo.
Nel luogo ivi più sterile, e men destro
Contra il freddo à la fame un’ antro è scudo,
Sottoposto à le nevi, al ghiaccio, e à venti,
Dove batte il tremor continuo i denti.
Ferma nel tristo volto il viso alquanto,
E dì da parte mia, ch’entri nel petto
Di quel, che fece oltraggio à l’arbor santo,
Per fare à la mia selva onta, e dispetto.
E ’l faccia dal digiun distrugger tanto,
Che vinto, sia da l’affamato affetto,
Si ch’ à satiar la sua digiuna scorza
Non bastin le mie spighe, e la mia forza.
Perche ’l lungo camin non ti spaventi
Dovendo ire à trovar l’Artico polo,
Prendi co’l carro mio gli aurei serpenti,
E ver la fredda Scithia affretta il volo.
Drizz’ella al vol contra i più freddi venti,
E giunge al monte abbandonato, e solo.
E vede lei, che fuor de l’antro stassi
Pascendo il suo digiun fra scogli, e sassi.
Ogni occhio infermo suo si stà sepolto
In una occulta, e cavernosa fossa.
Raro hà l’inculto crin ruvido, e sciolto,
E di sangue ogni vena ignuda, e scossa.
Pallido, crespo, magro, e oscuro ha il volto,
E de la pelle sol vestite l’ossa:
E de l’ossa congiunte in varij modi,
Traspaion varie forme, e varij nodi.
De le ginocchia il nodo in fuor si stende,
E per le secche coscie par gonfiato.
La poppa, ch’ à la costa appesa pende,
Sembra una palla à vento senza fiato.
Ventre nel ventre suo non si comprende,
Ma il loco, ù par, che sia già il ventre stato.
Rassembra in somma l’affamata rabbia
D’ossa una notomia, che l’anima habbia.