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Ne solo al saggio Proteo il ciel compiacque
     Di trasformarsi in qual si voglia sorte;
     Ma à Metra anchor, ch’al gran Nettuno piacque,
     Che d’Autolico Emonio fu consorte.
     Costei, che d’Eresittone già nacque,
     Dal grato Dio de la marina corte
     Di trasformarsi in ogni forma ottenne,
     E vi dirò l’origine, onde venne.

Non fu fra tutte l’anime nefande
     Più nefando huom del padre di costei.
     Fra gli altri vitij suoi non fu il più grande
     Disprezzator del culto de gli Dei.
     Tagliò fra gli altri un’ albero di ghiande
     Ne’ boschi, ch’in Tessaglia have colei,
     Che con benigno core, e lieta vista
     Offerse à l’uso human la prima arista.

Mandava il grosso ceppo inferiore
     Insino al ciel la cima alta, e superba.
     Gian le radici al tenebroso horrore,
     Dove han l’alme più ree pena più acerba.
     E tanto de la selva era maggiore,
     Quanto la selva era maggior de l’herba.
     E i rami suoi fean ombra à tanto suolo,
     Ch’era una selva intera un tronco solo.

D’un’alma Ninfa albergo altero, e degno
     Era l’incomparabil quercia antica,
     Che la vita comune havea co’l legno,
     Molto diletta à Cerere, et amica.
     E infinite corone facean segno,
     Qual di pampino ordita, e qual di spica,
     Co i voti, che cingeano il ceppo annoso,
     Ch’era dentro à quel tronco un Nume ascoso.

Spesso, dove il sacrato arbore adombra
     Legar le Driade pie palma con palma,
     E co’l ballo honorar la sua sant’ombra,
     E la sua deità propitia, et alma.
     Poi per saper, che spatio il tronco ingombra,
     Che di rami sostien si grave salma,
     Fer de le man legate una catena,
     E bastar tutte à circondarlo à pena.

Ma non resta però l’iniquo, e crudo
     Di comandare al servo, che l’atterri,
     E ne la scorza, ch’al troncon fà scudo,
     Cominci à dar co più sicuri ferri.
     Il servo, che non è di pietà ignudo,
     Si ritien d’oltraggiare i sacri cerri.
     Gli toglie egli di man la scure à forza,
     E con questo parlar dà ne la scorza.

Siasi sacrata pur l’altera fronde
     À l’inventrice de la prima biada,
     Che vò, anchor che la Dea vi si nasconda,
     Che la superba cima in terra vada.
     Come vede la quercia alta, e feconda
     La scure alzar, perche su’l tronco cada,
     Tremando geme, e ’n sudor piove il lutto,
     E vien smorta la fronde, e il ramo, e ’l frutto.

Qual, se ’l montone al santo altar si punge,
     Sparge il rosso liquor, che in vita il serba:
     Cosi, come al troncon la scure giunge,
     E vi si ficca dentro empia, e superba,
     S’apre la vena, e manda il sangue lunge,
     E macchia d’ogn’ intorno i fiori, e l’herba.
     E tutti, che v’havean volte le ciglia,
     N’hebber misericordia, e maraviglia.

Fra tanti un pur vi fu, che ne ’l riprese,
     Ch’ardì vetar, che non ferisse il cerro.
     Disse ei volgendo à lui le luci accese,
     Che n’ hai tu à far, s’ io qui percoto, et erro ?
     E da l’arbor, c’haver dovea l’offese,
     Rivolse à lui lo scelerato ferro,
     E havendo à l’infelice il capo aperto,
     Disse; Del tuo cor pio questo fia il merto.

Poi tornando à ferir la santa trave
     Co’l medesimo suo rancore, e sdegno,
     Questa voce n’uscì mesta, e soave;
     Ninfa son’ io, ch’albergo in questo Iegno,
     Amica de la Dea, che tien la chiave
     De l’abondanza del terrestre regno:
     Hor morendo t’annuntio, che di corto
     La pena havrai, che merta un tanto torto.