Lo stral senza la punta il mostro giunge,
Per torgli l’alma, e haverne il premio crede,
E gli dà ne la fronte, ma no ’l punge,
Che quel gli manca, onde forando fiede.
S’accresce l’ira al porco, e poco lunge
Eupalamon con più compagni vede,
Che fermi al varco stan co i ferri bassi,
Perche ’l nemico lor quindi non passi.
Ne’ lumi del Cinghiale arde, e risplende
L’ira, e dal cor profondo essala il foco.
Già contra i forti spiedi il corso stende,
Fremendo con grugnir superbo, e roco.
Et in un tempo istesso è offeso, e offende,
E al fin (mal grado lor) guadagna il loco.
È la lor forza à tanto horrore imbelle,
Ne può il ferro passar la dura pelle.
Le zanne altero arruota, e d’ira freme,
E manda Eupalamon ferito in terra,
Poi fa, che Pelagon talmente geme,
Che non ha più à temer de la sua guerra.
Lo stesso horrore, e stratio il figlio teme
Ippocoonte, e al corso si disserra:
L’arriva il mostro, e ’l punge nel tallone,
E manda l’alma sua sciolta à Plutone.
Se non havea Nestor l’occhio al suo scampo,
Non havria il terzo mai secolo scorto,
Non vedea mai d’intorno à Troia il campo,
Ma rimaneva in quella selva morto.
Andò il mostro crudel menando vampo
Contra Nestor fin da fanciullo accorto,
Ma saltò sopra un gran troncone à tempo,
Per non far torto al suo prefisso tempo.
E bene à tempo vi si trovò sopra,
Che giunto il mostro il guarda empio, e si sforza
Di fargli anchora oltraggio, e irato adopra
Il dente altier ne l’innocente scorza.
Veduto poi, ch’ei perde il tempo, e l’opra,
Rivolge contra i can l’ira, e la forza,
Che gli son sempre al fianco, ma si lunge,
Che l’infelice zanna non vi aggiunge.
Impetuoso il fier Cinghial gli assale,
E questo, e quel men destro azzanna, e uccide.
Infinito è il languor, ch’in aria sale
Di questo, e di quel can, che geme, e stride.
Con lo spiedo altre volte empio, e mortale
Orithia và ver le zanne homicide.
Ribatte il colpo il porco empio, e selvaggio,
E toglie al forte pugno il ferro, e ’l faggio.
Corre poi sopra il suo nemico, e ’l parte
Co ’l dente altier da genitali al petto,
E gli fà saltar fuor l’interna parte,
E morto il dona al sanguinoso letto.
I due fratei, che fra Mercurio, e Marte
Non haveano ancho il trasformato aspetto,
Gli eran con l’hasta in man tremuli à fianchi,
Su due destrier, via più che neve bianchi.
E sarian forse stati i primi à torre
La vita, ò almeno il sangue al mostro altero,
Ma il folto bosco, ove il caval lor corre,
A l’hasta, e al corso lor rompe il sentiero.
Disposto è in tutto Telamon di porre
Il mostro in terra, e corre ardito, e fero,
Ma dà d’intoppo in un troncon coperto,
E cade, e perde il desiato merto.
Ch’in quel, che Peleo il vuol alzar da terra,
La vergine Atalanta un dardo incocca,
E l’arco incurva, e poi la man risserra,
E fa del nervo libera la cocca.
L’ambitioso stral, come si sferra,
Conosce ben, ch’in van l’arco non scocca,
E certo di ferir batte le piuma,
E toglie il sangue à l’inimico lume.
Il mostro, che forar si sente il ciglio,
Per la doglia improvisa il capo scuote,
S’aggira, e si dibatte, ne consiglio
Da gittar via lo stral ritrovar puote.
La vergine, che vede il pel vermiglio,
E girarsi il Cinghial con spesse ruote,
Gode, che l’arma sua primiera colse,
E prima al crudo verre il sangue tolse.