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Poi con la dotta, e industriosa lima
     Vi va formando un dopo l’altro il dente.
     La tempra indi gli dà, che idonea stima,
     E ne l’onde il fa entrar rosso, e lucente.
     Su qualche debil legno il prova prima,
     E trova, che ’l suo ingegno à lui non mente.
     Anzi, che tal virtù nel suo dente have,
     Che sega il sasso, e la nodosa trave.

Due ferri eguali poi da un capo avinse,
     Che la forma tenean quasi del chiodo,
     E dal lato più grosso in un gli strinse,
     Con un soave, e maestrevol nodo.
     Co i lati acuti il cerchio poi dipinse,
     E di farlo perfetto aperse il modo,
     Tenendo di quei due stabile un corno,
     E con l’altro tirando il cerchio intorno.

Verso il maestro suo tutto contento
     Il semplice fanciullo affretta il passo,
     Per palesargli il nobile stormento,
     Che parte agevolmente il legno, e ’l sasso.
     E, perche vegga come in un momento,
     Può far perfetto il cerchio co’l compasso:
     E dove haverne honore, e lode intese,
     D’invidia, e crudeltate il fabro accese.

L’invidia il core al zio distrugge, e rode,
     Che vede ben, che ’l suo veloce ingegno
     Havrà maggior honor co’l tempo, e lode
     Di lui, ch’allhor tenuto era il più degno.
     Pur loda il suo discipulo, e con frode
     Cerca di darlo al sotterraneo regno.
     Ne la rocca di Palla un dì l’afferra,
     E da la maggior cima il gitta in terra.

Ma Palla, ch’ama ogni raro intelletto,
     Che cerca dar qualche nov’arte al mondo,
     Li cangiò in aria il suo primiero aspetto,
     Perche non gisse à ritrovare il fondo.
     E vestendo di piume il braccio, e ’l petto,
     Sostenne in aria il suo terrestre pondo.
     E del veloce ingegno il raro acume
     Fe trasportar ne’ piedi, e ne le piume.

Perdice pria, che trasformasse il ciglio,
     Nomossi, e ’l proprio nome anchor poi tenne.
     E, perche le sovien del suo periglio,
     Non osa troppo al ciel levar le penne.
     Il nido suo dal rostro, e da l’artiglio
     Fatto l’abete altier mai non sostenne.
     Teme i troppo elevati arbori, e l’uova
     In terra entro à le siepi asconde, e cova.

Si che se s’allegrò del crudo scempio
     La starna, che ’l dolor del fabro udio,
     N’hebbe cagion, che fu ver lei troppo empio,
     Mentre ella fu fanciullo, il crudo zio.
     Poi che ’l padre fe dir l’essequie al tempio,
     Quanto al primo camin cangiò desio,
     E ver l’ isola pia prese la strada,
     Ch’altera è anchor de la più nobil biada.

À l’amata Sicilia al fine arriva
     Stanco già di volar Dedalo, dove
     Del volo, e de le penne il dosso priva,
     Ne d’huopo gli è d’andar cercando altrove.
     Che quivi appresso al Re talmente è viva
     La fama de le sue stupende prove,
     E con tal premio Cocalo il ritiene,
     Che riveder più non si cura Athene.

Teseo al suo regno intanto era venuto,
Ú trionfò di gemme adorno, e d’auro,
     C’havea dal lagrimevole tributo
     Sciolta la patria, e ucciso il Minotauro.
     Onde honorato il suo nome, e temuto
     Glorioso ne gia da l’ Indo al Mauro,
     E in somma ogni republica, ogni regno,
     Teneva lui fra più forti il più degno.

Hor mentre i santi sacrificij fanno
     Ne la prudente Athene in varij lochi,
     Et in honor de gli Dei celesti danno
     Mirra, et incenso à mille altari, e fochi;
     E dopo allegri il dì passando vanno
     In conviti, in theatri, e in varij giochi;
     Giunge un’ ambasciatore, e invita il figlio
     D’Egeo d’esporsi à non minor periglio.