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ottavo. 139

Ma chiuso era dal mar; ne alcun su ’l legno
     Torre il volea per lo real sospetto.
     Ah dove è (disse) il mio solito ingegno?
     Dunque io starò qui seco al mio dispetto?
     Possieda pur la terra, e ’l salso regno
     Quel Re, ch’à tutti ha il mio partir disdetto;
     Il ciel già non possiede, e per lo cielo
     Portar vo in aria il mio terrestre velo.

Pon tutta à questo fin la mente, e l’arte,
     E di passar ne l’Asia in tutto vago,
     Come può torsi à la Cretense parte
     Pensa, e passar si spatioso lago.
     De gli augei più veloci à parte à parte,
     Comincia ad imitar la vera imago.
     E d’alterare, di formar pon cura
     Aerea, più che può, la sua natura.

I più veloci augelli spiuma, e spenna,
     Che ’l volo han più sublime, e più lontano.
     Pria comincia à investir la minor penna,
     E và crescendo poi di mano in mano.
     Tanto, che la maggior l’ascella impenna,
     Impiuma la minor l’estrema mano.
     Cosi il bicorne Dio par, che in un stringa
     Di calami ineguai la sua siringa.

Con la cera, e col lin l’unisce, e lega,
     E dove è d’huopo, le comparte, e serra.
     Indi con man le curva alquanto, e piega
     Imitando ogni augel, che men s’atterra.
     Ne cosa al bel lavor ricusa, e nega,
     Che ’l possa torre à l’odiosa terra.
     E è ogni parte sua si ben distinta,
     Che la natura par dà l’arte vinta.

Icaro un suo figliuol tutto contento
     Guarda, come i fanciulli han per costume,
     Se può imitare il padre: e se dal vento
     Vede levate al ciel talhor le piume,
     Corre lor dietro, e le raccoglie; e intento
     Ferma nel bel lavoro il vago lume.
     E la cera addolcendo, anch’ei s’adopra,
     E studia d’imitar la paterna opra.

Non sapendo trattarsi il suo periglio
     Si gioca intorno al padre, e si trastulla,
     E co suoi giochi il curioso figlio
     Talhor qualche disegno al padre annulla.
     Poi che del fabro accorto il dotto ciglio
     S’accorge, ch’al lavor non manca nulla,
     Si veste l’ale industriose, e nove,
     Che vuol veder le sue dannose prove.

Imita i veri augelli, e i vanni stende,
     Et alza il corpo, indi il sostien sù l’ale,
     E battendo le piume al cielo ascende,
     Et gode, et si rallegra del suo male.
     L’ale, che fe per Icaro, poi prende,
     E glie le veste, e fa, ch’in aria sale.
     E di volar gl’insegna, come sole
     Fare ogni augello à la sua nova prole.

Come hanno insieme il ciel trascorso alquanto,
     E ’l fabro d’ambi il vol sicuro scorge,
     Discende in terra, e poi non senza pianto
     Questo ricordo al miser figlio porge.
     Vedi figliuol, che ’l novo aereo manto
     Per l’aere, onde voliam, ne guida, e scorge,
     E condurranne in breve al lito amato,
     Se saprem conservarlo in questo stato.

Prendere il volo à mezzo aere convienne,
     Che se ci aviciniam soverchio al mare,
     La piuma graverà, la qual sostiene,
     E ne torrà la forza del volare.
     Ma se troppo à l’in sù battiam le penne,
     La cera il Sol farà tutta disfare,
     E disgiungendo à noi le penne unite,
     Farà caderne in grembo ad Anfitrite.

Drizza continuo al mio volar la luce,
     Ch’io sò per l’alto ciel le vie per tutto,
     Dove Orion, dove Calisto luce,
     E dove del mio vol posso trar frutto.
     Dapoi, che ’l troppo coraggioso duce
     Hebbe de suoi ricordi il figlio instrutto,
     Mentre baciollo, e gli assettò le piume,
     La man tremogli, e lagrimogli il lume.