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E per mostrare à Bacco, che se bene
     È la sposa, ch’ei vuol, nipote al Sole,
     Non però verso lei quell’odio tiene,
     Che ver l’altre ha de la medesma prole:
     E per dotar di più fondata spene
     La donna, mentre anchor ceder non vuole,
     Una bella corona al suo crin toglie,
     E n’orna il capo à lei, che vuol far moglie.

Questa corona havea fatta Vulcano
     Co’l lavor, ch’ei sapea più diligente,
     E v’havea poste intorno di sua mano
     Le più pregiate gemme d’Oriente.
     Ne v’era in tutto il regno almo, e sovrano
     Piu pretioso don, più risplendente.
     E ben da creder s’ha, poi che ei con fine
     La fe d’ornarne à la sua donna il crine.

Per un tempo non crede, anzi contende
     La giovane del Principe Ditteo,
     Ma à tanti preghi, e doni al fin s’arrende
     Da Venere instigata, e da Lieo.
     De lo Dio sempre giovane s’accende,
     E de l’amor si scorda di Teseo.
     La sposa Bacco, e ascoso il maggior lume,
     Felici fa di lei le proprie piume,

Per contentarla più Bacco poi volse
     Far sempre il nome suo splender nel cielo,
     E l’aurea sua corona al bel crin tolse,
     Et à farla immortal rivoltò il zelo:
     Al ciel ver quella parte il braccio sciolse,
     Onde Settentrion n’apporta il gielo,
     Prese al ciel la corona il volo, e corse
     Ver dove Arturo fa la guardia à l’Orse.

L’aurea corona al ciel più ogn’ hor si spinge,
     E di lume maggior se stessa informa,
     E giunta appresso à quel, che ’l serpe stringe,
     Ogni sua gemma in foco si trasforma.
     Un fregio pien di stelle hor la dipinge,
     E di corona anchor ritien la forma
     Là, dove quando il Sol la notte appanna,
     La vede il mondo, e chiama d’Arianna.

Vinto c’hebbe Teseo l’alto periglio,
     E dal tributo liberata Athene;
     Dedalo havendo in odio il lungo essiglio,
     E Creta, e ’l Re Ditteo, che ve ’l ritiene;
     À pensar cominciò, con qual consiglio
     Potrebbe torsi alle Cretensi arene,
     Che ’l Re l’amò per lo suo raro ingegno,
     Ne ’l volle mai lasciar partir del regno.

Dedalo già da la Palladia terra
     Fu d’un sublime ingegno al mondo dato,
     E già battè d’un’ alta rocca in terra
     Un fanciul d’una sua sorella nato:
     Ma non volle però mandar sotterra
     Tanto alto ingegno l’Attico Senato;
     Ma la debita pena moderando,
     Gli diè da la città perpetuo bando.

Era il regno di Creta allhora amico,
     E collegato à l’Attico governo,
     Ch’Athene anchor con animo nemico
     Androgeo non havea dato à l’ inferno.
     Hor dovendo lasciare il seggio antico
     Dedalo, e gire in un paese esterno,
     Pensò d’andare à la Cretense corte,
     E presso à tanto Re tentar la sorte.

Più d’una statua al saggio Imperadore
     Di sua man fabricò, che parea viva,
     Per poter gratia un dì co’l suo favore
     Dal bando haver, che de la patria il priva.
     Ma come il Re conobbe il suo valore,
     E l’arte sua miracolosa, e diva,
     In tanto amore, in tanta gratia il tolse,
     Ch’indi lasciar partir giamai no’l volse.

Ma Dedalo, ch’ardea di ritornare
     Al patrio sen, quanto potea più presto,
     Fra se discorre di voler tentare,
     S’appresso à un’ altro Re può ottener questo.
     Ne l’Asia egli vorria poter passare,
     E quivi il suo valor far manifesto,
     E poi per mezzo della sua virtute
     Impetrar gratia per la sua salute.