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Conta fra tanti tuoi trionfi, e fregi,
     Quest’altro tuo dignissimo trofeo.
     La stirpe iniqua tua non vien da Regi,
     Tu non fosti giamai figliuol d’Egeo.
     Giamai non fu, come ti vanti, e pregi,
     Tua madre de la stirpe di Pitteo.
     Tu non fosti, crudel, mai figlio d’Etra,
     Ma ben d’un’ aspra in mar dannosa pietra.

Lascia di novo il letto, e su lo scoglio
     Monta, e si fiede, e stride, e chiama, e guarda,
     Et hor con prego dolce , hor con orgoglio
     Chiama la fede sua falsa, e bugiarda.
     Echo, c’have pietà del suo cordoglio,
     Dice il medesmo anch’ella, ma più tarda:
     Et mentre, ch’ella stride, e si percote,
     Risponde à le percosse, et à le note.

Deh fossi sol da me tanto diviso,
     (Dicea) che da la poppa de la nave
     Potessi il pianto udir, vedere il viso,
     Quanta doglia appresenta, e quanto pave,
     Che muteresti il tuo crudele aviso,
     E di tornar non ti parrebbe grave.
     Ma poi che l’occhio tuo non è presente,
     Guardami almen con l’occhio della mente.

Riguarda co’l pensier l’amaro pianto,
     Che stracciando i capei da gli occhi verso:
     Riguarda co’l pensier l’inculto manto,
     Come da pioggia esser dal lutto asperso:
     Discorri, quanto io t’ho chiamato, e quanto
     Ti chiamo anchor con vario, e flebil verso;
     E quanto anchor da lamentarmi avanza,
     Poi c’hò perduto insino à la speranza.

Deh torna homai Teseo prima, ch’io cada
     Sola in tanta miseria in un deserto.
     E poi, che ’l merto mio poco t’aggrada,
     Io non ti prego più per lo mio merto,
     Ti prego per honor della tua spada,
     Che da te tanto mal non sia sofferto:
     Che s’io non ti salvai, non fei di sorte,
     Ch’ io ne dovessi haver però la morte.

Deh se alcuna pietate il cor ti punge,
     Rivolta à me la desiata prora,
     E se ben sei da questa isola lunge,
     Non dubitar di non venire ad hora.
     E come la tua nave al lito giunge,
     Se trovi l’alma del suo albergo fuora,
     Prendi almen l’ossa, e, come si conviene,
     Doni à la moglie tua sepolcro Athene.

Mentre cosi la sventurata piange,
     E in varij luoghi si trasporta, e duole,
     E del dolor, che la tormenta, et ange,
     Fan fede le percosse, e le parole.
     Lo Dio, che già fu vincitor del Gange,
     Come la buona sua fortuna vuole,
     Vede passando lei, che si querela,
     E fa voltare à quel camin la vela.

Tosto, che Bacco almo, e giocondo intende
     In giovane si bella i vaghi lumi,
     Et ode il gran dolor, ch’entro l’offende,
     E vede gli occhi suoi stillarsi in fiumi,
     E sente, che la sua stirpe discende
     Da due si chiari, e gloriosi Numi,
     Di lei s’infiamma, e la conforta, e prega,
     Tanto, ch’ à fine al suo voler la piega.

È ver, che da principio, come quella,
     Che la fede de l’huom provata havea,
     Si mostrò ver Lieo cruda, e rubella,
     E poco del suo amor conto tenea.
     Ma Bacco, che disposto era d’havella,
     Chiamò la bella, et amorosa Dea
     À le sue nozze, e à ei la cura diede
     Di dispor la donzella à nova fede.

Venere, che di Bacco è sempre amica,
     Et è senz’esso men vezzosa, e calda,
     La donna allhor del novo amor nemica
     Con preghi, e sguardi pij move, e riscalda.
     La piaga, ch’ella havea d’amore antica,
     La Dea di propria man medica, e salda:
     E poi con ogni suo più caldo affetto
     Cerca con novo stral piagarle il petto.