Quest’aere, questa terra, e questi lidi
Mi minaccian crudeli ogni empio danno.
Hor su poniam, che questa terra annidi
Quegli animai, che più de gli altri sanno,
Come vuoi più, che d’huomini io mi fidi,
Poi che nasce da un’huom si crudo inganno?
Ben cieco è l’occhio mio, s’anchor non vede
Quanto può donna ad huom prestar di fede.
Volesse Dio, ch’Androgeo mio fratello
Mai non havesse il tuo regno veduto,
Che non l’havrebbe il Greco empio coltello
In si tenera età donato à Pluto:
Ne veduto io t’havrei nel patrio hostello,
Per satisfare al funeral tributo.
Ne men per torti à cosi gran periglio,
T’havrei dato il mio fil, ne ’l mio consiglio.
Ó cor pien di perfidia, ò viso finto,
Ó infamia singular de tempi nostri,
S’io te tolsi à l’error del laberinto,
Ond’è, ch’à quinci uscir tu à me non mostri?
S’al toro te tols’io, che t’havria vinto,
Come preda me fai di mille mostri?
S’ho il cor mostrato à te fedele, e puro,
Perche sei stato à me falso, e pergiuro?
Ó traditore, ò d’ogni nome indegno,
Che suol qua giù fra noi portare honore,
Dunque, perch’io ti diè’ l’arme, e l’ingegno,
Che ti trasser del carcer vincitore;
Dunque, perch’io t’hò liberato il regno
Da tributo si rio, da tanto horrore;
Dunque per darti in tanta impresa aita
Mi dai la morte, ov’io ti diei la vita?
Ma ben veggo io, che mi lamento à torto,
Che senza il modo mio, senza il mio lino,
Havresti il bue men forte, e meno accorto
Condotto al fin del suo mortal camino.
E come egli giamai t’havrebbe morto,
C’hai il cor di ferro, e ’l petto adamantino?
E tu sendo si falso, e astuto Greco
Saresti uscito anchor d’error più cieco.
Sonno crudel, che nel notturno oblio
Tenesti l’alma mia sepolta tanto,
Che non potei sentir lo sposo mio,
Che per fuggir si mi levò da canto.
Ó venti troppo pronti al suo desio,
Ó troppo officiosi al nostro pianto,
Ó troppo ingiusti, ò troppo infami venti,
Che desti aiuto à tanti tradimenti.
Ó man cruda, e fallace, che ’l consorte
Mi promettesti, e la miglior mercede,
E poi me co ’l fratel donasti à morte,
Con le percosse lui, me con la fede.
Oime, che congiurar ne la mia sorte
Tre per mandarmi à la tartarea sede,
E contra una fanciulla quel, che ponno,
Han fatto tre, la fede, il vento, e ’l sonno.
Oime, morrommi in queste arene esterne,
E pria, che vengha la mia luce oscura,
Io non vedrò le lagrime materne,
Ne la materna sua pietate, e cura.
E de strani animai, tane, e caverne
Saran de l’ossa mie la sepoltura.
Dunque crudo Teseo questo deserto
Vuoi far degno sepolcro à tanto merto.
Tu te n’andrai superbo al patrio lido
Portando in man la vincitrice palma,
Dove ti daran gratie, honore, e grido,
C’habbi levato lor si grave salma.
Tu conterai, com’entro al dubbio nido
Al miser fratel mio togliesti l’alma,
E come poi per vie dubbiose, e torte
Sapesti vincitor trovar le porte.
Quivi havrai da la patria honore, e gloria,
Sendo per te da tanto obligo sciolta,
Et io, che fui cagion de la vittoria,
Me ne starò qui morta, e non sepolta.
Ravviva almeno anchor la mia memoria,
E di, ch’io mi fidai semplice, e stolta;
E poi che desti al tuo desire effetto,
Mi lasciasti in quest’isola nel letto.