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ottavo. 135

Venere adunque andò contra costei,
     Per darle fra le infami il primo vanto.
     E perche il Re de gli huomini Dittei
     Dovendo fare il sacrificio santo,
     Tolse quel toro à sempiterni Dei,
     C’havea più altero il cor, più bello il manto,
     Gli volse far veder, ch’era stat’empio,
     E ch’era me’ per lui di darlo al tempio.

Mentre nel toro altero i lumi intende
     Pasife, che fe uscir di terra il cielo,
     Fà Citherea, che l’arco il figlio tende,
     E poi scoccar contra la donna il telo.
     Del toro allhor la misera s’accende,
     E loda l’occhio, il volto, il corno, e il pelo.
     Già con occhio lascivo il guarda, e l’ama,
     E di goder di lui discorre, e brama.

Quando s’avede al fin, che ’l proprio ingegno
     Non sa dar luogo al troppo strano affetto,
     Confida con un fabro il suo disegno,
     Che in corte havea d’altissimo intelletto.
     Compose in breve una vacca di legno
     Quel si raro huom, che Dedalo fù detto,
     Che da se si movea, da se muggiva,
     E parea à tutti naturale, e viva.

Ordina poi l’artefice, che v’entre
     L’innamorata, e misera Regina.
     Mossa ella dall’amor l’ingombra il ventre,
     E ’l fabro al toro incauto l’avicina.
     Già il bue la guarda, e si commove, e mentre
     Il legno intorno à lui mugghia, e camina,
     A l’amoroso affetto il bue s’accende,
     E gravida di se Pasife rende.

Quel mostro nacque poi di questo amore,
     C’hor rende cosi mesto il Re di Creta.
     Perche scopre il suo obbrobrio, e ’l suo disnore,
     Ne può l’infamia più tener secreta.
     Se non punisce lei di tanto errore,
     Degna cagion gliel dissuade, e vieta,
     Ne vuol di tanta infamia punir lei,
     Per non sdegnar di novo i sommi Dei.

Fe far poi per nasconder tanto scorno
     Da Dedalo un difficil laberinto,
     Il qual di grosse, e d’alte mura intorno
     In pochi dì fù fabricato, e cinto.
     Com’un dentro vi gia, perdea il ritorno,
     E si trovava in mille errori avinto.
     Da mille incerte strade hor quinci, hor quindi,
     Spint’era hor ver gl’Iberi, hor verso gl’Indi.

Come il fiume Meandro erra, e s’aggira
     Co ’l suo torto canal, ch’al mare il mena,
     C’hor verso ove già nacque il corso il tira,
     Hor per traverso, hor ver la salsa arena;
     E l’acque in mille luoghi incontra, e mira,
     Che seguon lui da la medesma vena:
     Cosi vanno le vie chiuse lì dentro
     Hor ver l’estremo giro, hor verso il centro.

Come se ’l Tebro altier l’irata fronte
     Per dritto filo in qualche ripa fiede,
     Fà l’onda irata sua tornare al monte,
     Tal ch’ei medesmo hor corre innanzi, hor riede;
     E nel tornar la nova acqua, che ’l fonte
     Manda al mar per tributo, incontra, e vede,
     E và per mille strade attorte, e false
     Hor verso il monte, hor verso l’onde salse:

Cosi l’accorto, e celebre architetto
     Di tante varie vie fallaci, e torte
     Compose il dubbio, e periglioso tetto,
     Ch’à pena ei seppe ritrovar le porte.
     Tosto che in ogni parte fu perfetto,
     Vi fero il mostro entrar feroce, e forte.
     Cosi per quelle vie cieche, e dubbiose
     Il Re Ditteo la sua vergogna ascose.

Già diventato si crudele, e strano
     Era il biforme toro, infame, e brutto,
     Che si pascea di carne, e sangue humano,
     D’ogni prigion, che quivi era condutto.
     Il bue non gia per le vie dubbie in vano,
     Anzi per l’uso sapea gir per tutto.
     E in creta quei, ch’à morte eran dannati,
     A questo carcer crudo eran donati.