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Ma di Nettuno la pietosa moglie
     Non la volse lasciar cader nel sale,
     Anze tolse ancho à lei le prime spoglie,
     E le diè per fuggir le penne, e l’ale.
     Tal che co’l volo à l’Aquila si toglie,
     E fugge l’altrui sdegno, e ’l proprio male.
     La segue d’ira acceso, e di dispetto
     L’empio Aquilon, c’hoggi Alieto è detto.

Diero à la figlia sua di Ciri il nome
     Dal crin tonduto, e poi c’hebbe le penne,
     L’ornò lo istesso crin le nove chiome,
     Ch’una purpurea cresta il capo ottenne.
     Ha di varij color le penne, come
     Le vesti havea, quando à cangiar si venne.
     Le resta il padre anchora empio nemico,
     E serba contra lei lo sdegno antico.

Vergogna anchor l’afflitta Scilla punge
     De fatti à la sua patria oltraggi, e danni.
     Scogli, e ripe deserte habita, e lunge
     Mena da gli occhi humani i giorni, e gli anni.
     Il Re di Creta à la sua patria giunge,
     E poi, c’ hà dato cosa à tanti affanni,
     Con tanta gloria, e tanti altri trofei,
     Non manca del suo officio à sommi Dei.

Per honorar le sue vittorie nove
     Di ricchissime spoglie i muri adorna,
     Va con gran pompa al santo tempio, dove
     La scure à cento buoi fiacca le corna.
     Ma se ben tante in lui gratie il ciel piove,
     Non però lieto al regio albergo torna,
     Con tanti suoi trofei fra se si dole
     De la cresciuta sua biforme prole.

Si come piacque al Re, che ’l ciel possiede,
     Per uno sdegno, che gli accese il petto,
     Già la consorte un figlio al giorno diede,
     C’havea dal mezzo in su viril l’aspetto.
     Tutto il resto era bue dal fianco al piede,
     Perpetuo al Re Ditteo scorno, e dispetto.
     Molti anni prima il Re del santo regno
     Nascer quel mostro fè per questo sdegno.

Dovendo fare una importante guerra
     Il Re Ditteo volge à le stelle il zelo,
     Ne vuole uscir de la Cretense terra
     Senza placar co’l sacrificio il cielo.
     Alza le luci, e le ginocchia atterra,
     E poi dispiega al suo concetto il velo.
     Mandami un’ holocausto ò sommo Dio,
     Che al ciel supplisca, e al desiderio mio.

Mancar non puote Giove al cor sincero,
     Al prego pio, ch’al padre il figlio porge.
     Et ecco un toro candido, et altero
     Fuor de la terra in un momento sorge.
     Subito il Re Ditteo cangia pensiero,
     Come le sue bellezze uniche scorge;
     Ne vuol donarlo à l’ultimo tormento
     Per migliorare il suo superbo armento.

Fe poi, che da la mandra un’ altro toro
     In vece di quel bello al tempio venne,
     Dove al suo tempo fra le corna d’oro
     Percosso, e morto fu da la bipenne.
     E ne fece hostia al più beato choro
     Con tutto quell’honor, che si convenne.
     Si sdegnò molto il mondo de le stelle,
     Ch’ei non sacrò le vittime più belle.

Si sdegna più d’ogni altro il sommo Giove
     Contra il figliuolo, in caso tal non saggio,
     E parla irato à Venere, e la move
     À vendicare il ciel di tanto oltraggio.
     Venere co’l figliuol subito dove
     Stà la moglie del Re prende il viaggio,
     Ch’ambo cerca macchiar di doppio scorno,
     Perch’ odia anchor lo Dio ch’apporta ’l giorno.

Non sol la bella Dea port’ odio al Sole,
     Perche scoprì le sue Veneree voglie,
     Ma cerca, quanti son di quella prole,
     Gravar di nove infamie, e nove doglie.
     Colei, che di bellezze uniche, e sole
     Fu al Re di Creta già data per moglie,
     La qual Pasife fu detta per nome,
     Nacque del chiaro Dio da l’auree chiome.