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Già ne la prima, e più morta quiete
     Havea sepolti i miseri mortali,
     E sparso il cor d’obliviosa lete
     Il pigro sonno à tutti gli animali;
     E ’l Re dentro à le mura più secrete
     Dava riposo à suoi diurni mali;
     Quando (ò troppo empio error) muta v’arriva
     Scilla, e del crin fatale il padre priva.

E coraggiosa al mal, pronta, et accorta,
     Toglie le chiavi anchor, ch’ei non la sente,
     E nel tempo opportuno apre la porta,
     E sola và fra la nemica gente.
     Per lo paterno crin, che seco porta,
     Di fiducia si grande arma la mente,
     Ch’al Re ne và non men calda, ch’audace,
     E poi stupir con queste note il face.

Io Scilla son figlia di Niso, e vegno,
     Ó d’ogni gratia Re via più c’humano,
     Per dar felice effetto al tuo disegno,
     E, perche più non t’affatichi in vano:
     E porto per donarti meco un pegno,
     Co’l quale haver puoi la mia patria in mano.
     In questo crin purpureo, ch’lo ti mostro,
     Sta il fato, e la ragion del regno nostro.

Mill’anni ti saresti affaticato,
     Ne preso havresti mai la nostra terra,
     Però ch’ al padre mio rispose il fato.
     Tu non sarai mai superato in guerra,
     Mentre un purpureo crin, che ’l ciel t’ha dato,
     Che fra gli altri capei s’asconde, e serra,
     Saprai tener si ben chiuso, e raccolto,
     Che non ti sia d’altrui troncato, ò tolto.

Ond’ io, ch’altro non cerco, e non desio,
     Che di gradirti, contentar ti volsi,
     Me n’andai questa notte al padre mio,
     E per donarlo à te l’ancisi, e tolsi,
     Ch’essendo tu figliuol del maggior Dio,
     Come à la tua beltà le luci io volsi,
     La scorsi si mirabile, e si diva,
     Che d’amore, e di te restai cattiva.

Ne da quel giorno in quà bellezza io veggio,
     Se non la tua, ch’à se mi tiri, e chiami.
     Hor poi, che in questo crin è ’l regal seggio
     Del padre mio, del regno, che tu brami:
     Prendilo, e in ricompensa altro non chieggio,
     Se non, che tu mi signoreggi, e m’ ami;
     Cosi dicendo, stende al Re Ditteo
     Con l’empio dono il braccio iniquo, e reo.

Tosto, ch’ il giusto Re di Creta intende
     L’enorme, e infame vitio di colei,
     Turbato la discaccia, e la riprende.
     Fuggi malvagia, e ria da gli occhi miei,
     Fuggi da l’ira mia, da le mie tende,
     Non conversar con gli huomini Dittei,
     Ó del secol presente infamia, e scorno,
     Celati in parte, ove non splenda il giorno.

Và, che non sol del regno alto, e giocondo
     Gli Dei gli empi occhi tuoi privin per sempre,
     Ma ti neghino il mare, e ’l nostro mondo,
     Fin che ’l composto tuo si sfaccia, e stempre.
     Stia l’alma poi nel regno atro, e profondo
     Mentre rotan del ciel l’eterne tempre,
     Và, che ’l tuo volto, e ’l tuo fiero costume
     Giamai qua giù fra noi si scopra al lume.

Quell’isola, ch’à Giove il carnal chiostro,
     L’origine, la culla, e’l latte diede,
     La nobil Creta, il fertil terren nostro,
     Dove mi dier gli Dei la regia sede,
     Non vedrà mai si abominevol mostro,
     Senza pietà nel padre, e senza fede.
     Poi comandò pien d’ ira, e di dispetto,
     Che la cacciasser via fuor del suo tetto.

Intanto Niso, che del crin s’accorse,
     Che mentre egli dormia, gli fu troncato,
     E che dinanzi à gli occhi à lui si porse
     Quel che molt’ anni pria predisse il fato:
     Come prudente al Re di Creta corse
     Con gli huomini più degni del suo stato,
     Et inchinosse à lui senz’arme al fianco,
     E poi gli diede in mano il foglio bianco.