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Ó me tre volte, e quattro, più beata,
     S’ivi io giungessi, ove il pensiero arriva,
     Ti farei noto il sangue, ond’ io son nata,
     E ’l foco, che ’l tuo amor nel cor m’aviva:
     Chiederei con qual dote esser comprata
     Potria la tua bellezza unica, e diva.
     E pur, che non chiedessi il patrio regno,
     D’ogni altro mio thesor ti farei degno.

E se ben già l’ardor fè vacillarmi,
     Che mi fece il pensier talhor men sano,
     E dissi, che per tua consorte farmi
     Ti darei con la terra il padre in mano;
     À tanto error giamai non potrei darmi,
     Vada pur tal pensier da me lontano.
     Manchin prima le nozze, e ’l mio desio,
     Ch’io manchi mai d’officio al padre mio.

Ben ch’utile è tal hor di darsi vinto,
     Che s’have il vincitor più dolce, e grato.
     Già fù il figliuolo al Re di Creta estinto,
     E la ragione è tutta dal suo lato.
     Et oltre à questo in nostro danno ha spinto
     Si numeroso stuol, si bene armato,
     Ch’oltre, ch’à giusta causa egli s’apprende,
     L’arme ha molto migliori, onde n’offende.

Se la ragion per lui spiega le carte,
     E d’arme, e genti, e più fornito, e forte,
     La vittoria sarà da la sua parte,
     Tutto havrà in suo poter la nostra corte.
     Hor perche voglio dunque, che ’l suo Marte,
     E non che l’amor mio gli apra le porte?
     È meglio pur, s’ei dee prender la terra,
     Che l’habbia senza sangue, e senza guerra.

Ch’io temo, che qualch’un di colpa ignudo
     Mentre i campi maggior la pugna fanno,
     Non passi à caso à te l’elmo, ò lo scudo,
     Non faccia qualche oltraggio al carnal panno.
     E qual saria quell’animo si crudo,
     Che per elettion ti fesse danno?
     Qual mente si crudel giamai potria
     Far, che l’ hasta ver te non fosse pia?

Ogni ragion m’astringe, e persuade,
     Ch’io ne la tua pietà fondi ogni speme,
     Che per dare homai fine à tanta clade,
     Me dar ti debbia, e la mia patria insieme.
     Cosi vò far, ne vò, ch’à fil di spade
     Siam tutti tratti à le fortune estreme.
     Ma poco è questo al mio voler, che ’l padre
     Mi vietà il passo, e le sue caute squadre.

Serba le chiavi ei sol saggio et accorto,
     E solo à fren le mie voglie ritiene.
     Cosi piacesse à Dio, che fosse morto,
     Che non mi priveria di tanto bene.
     Ma perche da me stessa io mi sconforto,
     Se posso sopra me fondar mia spene?
     Perch’altrui chieggio quel, ch’è in poter mio,
     Poi che ciascuno à se medesmo è Dio?

Al voto pusillamino, e imprudente
     Suol sempre ripugnar l’aspra fortuna.
     S’altra sentisse al cor fiamma si ardente,
     Senza riguardo havere à cosa alcuna,
     Tutte le cose opposte à la sua mente
     Cercheria d’estirpare ad una ad una.
     E perch’ à par d’ogni altra io non ardisco,
     Di darmi al ferro, al foco, e à maggior risco?

Ma d’huopo à me non è foco, ne spada,
     Per conseguire il fin del mio disegno.
     Basta, ch’al padre mio quel crine io rada,
     Che gli assicura con la vita il regno.
     Quel d’ogni cosa più lodata, e rada
     Può far del ben, che brama il mio cor degno.
     Può la sua bella chioma aurea, e pregiata
     Più d’ogni altro thesor farmi beata.

Mentre l’audace giovane discorre,
     Come possa ottener le sue venture,
     Il Sol, che sotto il mar s’asconde, e corre,
     Lascia l’Attiche parti ombrose, e scure,
     Tanto, ch’à Scilla fa lasciar la torre
     La notte, alma nutrice de le cure:
     E crescendo le tenebre, e l’horrore
     Fer, che crebbe ancho à lei l’audacia, e ’l core.