Più felice huom non havea allhora il mondo,
Ch’oltre, ch’io del bel dardo andava altero,
Godea quel viso angelico, e giocondo,
Ch’era de gli occhi miei l’obbietto vero.
Era l’amor reciproco, e secondo
Al giusto d’ambedue fido pensiero.
Felice andava ognun de la sua sorte,
Io de la moglie, et ella del consorte.
Io de le belle Dee di Cipro, e Delo,
Havrei spregiato il coniugal diletto;
Non havrebbe ella per lo Re del cielo,
Ne per lo biondo Dio cangiato il letto.
Cosi tutto quel ben, che porge il zelo
D’amor, godea ciascun con pari affetto.
Ne so, se ’l ciel, che ’l nostro ben comparte,
Possa di maggior bene altrui far parte.
Spesso nel bosco à caccia andar solea
Ne l’apparir del mattutino raggio.
Ne de miei servi alcun meco voleva,
Ne di cani, ò di reti alcun vantaggio.
Mi facea il dardo sol, che meco havea,
Sicuro andar da qual si voglia oltraggio.
Ne mi togliea dal boscareccio assalto,
Se non dapoi, che ’l Sol vedea tropp’alto.
Ne l’hora, che più caldo il Sol percote,
E che quasi i suoi raggi à piombo atterra,
E fa l’ombre drizzar verso Boote,
E del più grande incendio arde la terra,
Io mi ritiro in parte, ove non puote
Ferirmi per la selva, che mi serra;
E l’Aura, onde lo spirto, e ’l fresco prendo,
Spesso con questo suon chiamo, et attendo.
Mentre il più caldo giorno il mondo ingombra,
E l’aere, e ’l bosco non si move, e tace,
Et io son corso à riposarmi à l’ombra,
Per fuggir da l’ardor, che mi disface,
Aura ogni noia dal mio petto sgombra
Tu, che sei il mio riposo, e la mia pace,
Venga il conforto mio, venga quell’Aura,
Che d’ogni noia il mio petto ristaura.
Tu il mio contento sei, tu la mia speme,
Aura la vita mia da te dipende.
Quell’alma, che mi regge, e mi mantiene,
Da te lo spirto, e ’l refrigerio prende.
Però contenta il mio cor di quel bene,
Che per l’ardor, c’hora il consuma, attende.
Vienne Aura, al mio desir propitia, et alma,
E fa del tuo favor lieta quest’alma.
Mentre con dolce, e affettuoso accento,
Chiamo l’Aura propitia al mio soggiorno,
Perche co’l fresco suo placido vento
Scacci l’ardor da me del mezzo giorno:
Si stà un pastore ad ascoltarmi intento
Da le macchie nascosto, c’hò d’intorno,
E sente chiamar l’Aura, e in pensier cade,
Ch’ella sia qualche Ninfa, che m’aggrade.
Quanto l’Aura chiamar più spesso m’ode
Con lusingha si dolce, e si soave,
E darle tanto honore, e tanta lode,
Più crede à quel pensier, che preso l’have.
E com’huom pien d’invidia, e pien di frode,
Per farmi d’ogni affanno infermo, e grave,
A la città dal bosco si trasporta,
E à la mia donna il falso amor rapporta.
Cosa credula è Amore, ella se’l crede;
E come seppi poi, dal dolor vinta,
E da la gelosia de la mia fede,
S’atterra tramortita, e quasi estinta.
E tosto, che ’l vigor primo le riede,
Chiama la fede mia bugiarda, e finta.
Straccia per gelosia le bionde chiome
D’un vano in tutto, e senza membra nome.
È ver, che talhor dubita, e si porge
Da se medesma alquanto di conforto,
Ne vuol (se l’occhio proprio non lo scorge)
Creder, ch’io l’habbia mai fatto quel torto.
E però ascosamente, come sorge
L’Aurora, e ch’io mi torno al mio diporto,
Mi vuol seguire, e starsi ascosa in loco,
Che ’l vero habbia à scoprir di questo foco.