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settimo. 128

Tendiam le reti, e compartiam le lasse,
     D’occupar passi ogn’un si studia, e sforza,
     Perche del mostro altier priva si lasse
     De l’alma ria la mostruosa scorza.
     In tanto i bracchi con le teste basse
     Cercan del fiuto lor mostrar la forza,
     Già scoperta è la fera, e si risente,
     E contra i cani ingordi adopra il dente.

Come il fero animal mostra la fronte,
     E questo, e quel mastino affronta, e fiede,
     Chi corre per lo pian, chi scende il monte,
     Altri à cavallo, altri co’l proprio piede.
     E và per vendicar gli oltraggi, e l’onte
     Contra l’auttor de le dannose prede.
     Altri gli lascia il veltro, altri l’assale
     Ó co’l dardo, ò con l’hasta, ò con lo strale.

Stà il mostro altier talmente in su l’aviso,
     Et è si presto, si veloce, e snello,
     Che non si lascia mai corre improviso,
     Ma s’aventa, e ferisce hor questo, hor quello.
     Rende à questo, e quell’huom sanguigno il viso,
     Rende à questo, e quel can sanguigno il vello.
     E cosi bene assalta, e si difende,
     Ch’egli percote ogn’un, ne alcun l’offende.

Quando tanto abondar vede la folta,
     E d’esser d’ogni aiuto ignuda, e sola,
     La fatal volpe in fuga il piede volta,
     E ’n pochi salti à tutti i can s’invola.
     Il cane, e l’huom si drizza à la sua volta,
     E chi fa udire il suon, chi la parola.
     E à quei, ch’i passi guardan d’ogni intorno,
     Dan segno altri co’l grido, altri co’l corno.

Dopo molto fuggir, l’iniqua, e fella
     Belva verso quel luogo affretta il passo,
     Dove co’l can, che Lelapo s’appella,
     E co’l dardo fatale io guardo il passo.
     Il can con flebil suon s’ange, e flagella,
     E si prova, e si duol ch’andar no’l lasso.
     Io stò à mirar la fuga, e ’l mostro intento,
     E come veggio il tempo, il cane allento.

Hor qual sarà de due più presto, e forte?
     Qual de due l’impresa havrà la palma?
     L’uno, e l’altro dal fato havea la sorte,
     L’uno, e l’altro ha fatal la spoglia, e l’alma.
     Questo per dar, quel per fuggir la morte
     Affretta più, che può, la carnal salma.
     E saltan con fatal prestezza, e possa
     Ogni rete, ogni macchia, et ogni fossa.

In mezzo al campo un picciol colle siede
     D’arbori, e d’ogni impaccio ignudo, e netto,
     Io pongo in fretta in su la cima il piede,
     E del corso de due prendo diletto.
     La belva hor gira, hor s’allontana, hor riede,
     Perche il cane à trascorrer sia costretto:
     E spesso, in quel, che’l mostro il camin varia,
     Prenderlo il can se ’l crede, e morde l’aria.

Ecco, che già da presso io gli riguardo,
     Dopo più d’una corsa, e più d’un giro,
     Io tosto al laccio accomodo del dardo
     La mano, e prendo ogni vantaggio, e tiro.
     Hor mentre và lo stral presto, e gagliardo,
     Farsi la volpe, e ’l can di marmo miro.
     Par, che ’l can segua, e d’abboccar si strugga,
     E ch’ella à più poter si stenda, e fugga.

Era fatal il mostro, e ’l veltro, ch’io
     Lasciai, la sua virtù dal fato tolse,
     E, perche anchor fatal fù il dardo mio,
     Far vincitore il fato alcun non volse,
     Ma ’l cane, e ’l mostro periglioso, e rio
     In mezzo al corso in duri sassi volse:
     E sol salvò dal rio marmoreo sdegno
     Con la stessa virtù l’acciaio, e ’l legno.

Se bene il rimirar mi spiacque assai
     Si nobil cane un sasso alpestre, e duro,
     Sentij sommo piacer, quando trovai
     Esser dal marmo il mio dardo sicuro.
     Misero me, di quello io m’allegrai,
     Che il mio bel tempo fece ombroso, e scuro.
     Ó me beato, se rendean que’ marmi
     Co’l mio misero can pietra quell’armi.