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Ignoto cavalier, che ’l sangue mio
     Cerchi macchiar co’l dono, e con l’inganno:
     E per dar luogo al tuo folle desio
     Hai mentito fin hor la stirpe, e ’l panno;
     Tornati pur al tuo regno natio,
     Dove à l’honore altrui potrai far danno:
     Pero che sei (se credi) in tutto cieco
     Dar questa maechia al sangue regio Greco.

Perche la stirpe mia pudica, e monda
     D’ogni macchia, che seco infamia apporte,
     Non vuol, ch’ad altro amore il mio risponda,
     Ch’à quel del mio dolcissimo consorte.
     E ben ch’altri hor se ’l goda, e me ’l nasconda,
     E forse al suo desio chiugga le porte,
     Vo però casta à lui servarmi, e quale
     Conviensi à la mia stirpe alma, e reale.

Prendi pur quelle gioie, e quelle serba
     Ad altra, che dia luogo al tuo appetito.
     La regia stirpe tua diva, e superba
     Altra disponga al tuo lascivo invito:
     Ch’io sarò sempre ad ogni voglia acerba
     Da quella in fuor del mio dolce marito.
     À lui voglio servar, pudica, e fida
     Quanta gioia d’amor meco s’annida.

Ó pensier curioso, ò mente insana,
     Perche de la sua fè non ti contenti?
     Havria potuto Pallade, e Diana
     Risponder più pudichi, e grati accenti?
     Perche l’inganno tuo non s’allontana?
     Perche di novo la combatti, e tenti?
     Che non ti parti? e con la vera gonna
     Non torni à goder poi si rara donna?

Mentre i diamanti, i rubini, e i camei
     Rinchiudo entro al lor nido, anchor rispondo,
     Che s’ella compiacesse à desir miei,
     Più ricca donna non havrebbe il mondo.
     E se ben figlia ella è del Re d’Achei,
     Io di tant’oro, e tante gioie abondo,
     Che de le cose più rare, e più belle
     Avanzeria la madre, e le sorelle.

E che per starsi splendida in Athene
     Havria sempre da me de l’oro in copia,
     E che potrebbe haver sicura spene,
     Che non glie ne farei patire inopia.
     Ma che del suo contento, e del suo bene
     Non ne potea voler più, ch’essa propia.
     E con queste parole, et altre assai
     Io mi procaccio, misero, i miei guai.

Ogn’ hor più il mio parlar libero, e sciolto
     L’orecchie, e ’l core à la mia donna fiede,
     Tanto, ch’ella le luci alza al mio volto,
     E mi contempla ben dal capo al piede.
     Poi riguardando al zaino, ove raccolto
     È ’l mio ricco thesor, che più non vede,
     Getta un sospiro, e di parlar pur tenta,
     Comincia à dir, poi tace, e si spaventa.

Mentre corrotto il suo santo costume
     Veggio, e ’l pensier già si pudico, e saggio,
     Incontrando con lei lume con lume,
     Scorgo, che ’l suo lampeggia, come un raggio.
     In quel, ch’ io stò per far d’ogni occhio un fiume,
     Dar cerca ella al suo dir forza, e coraggio,
     E dice al fin con un dir rotto, e cheto,
     Che d’esser giuri à lei fido, e secreto.

Come ho scoperto, quanto agevolmente
     Può cangiar donna casta il san pensiero,
     L’invisibil mia Dea, ch’era presente,
     Mi trasformò nel mio volto primiero.
     Tal, ch’ ella à pena aprì la ’nfame mente,
     Ch’ io le comparsi il suo marito vero.
     Chinò ciascun di noi le ciglia basse,
     Ne sò chi più di noi si vergognasse.

La vergogna, e lo sdegno ambi i cuor prende:
     Ma fatto del mio cor signor lo sdegno,
     AIza l’irata voce, e la riprende.
     Dunque verresti donna à l’atto indegno,
     À l’atto, che la donna infame rende,
     Per premio anchor, che n’acquistassi un regno?
     Allenta ella al mio dir al pianto il freno,
     E di lagrime sparge il volto, e ’l seno.