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La donna, più che puote, asconde il pianto;
     L’affreno io, più che posso, che non piova.
     Mira ella, e pregia le mie gemme intanto,
     Et io faccio abondar la merce nova.
     Poi dico, fa scostar Madama alquanto
     La compagnia, che qui teco si trova,
     Però, che merce tal qui dentro annido,
     Ch’ ad ogni man non la concedo, e fido.

Ogni più favorito occhio, e più degno,
     Ch’à veder s’era fatto innanzi un poco,
     Al primo, che li diè la donna segno
     Si ritirò da parte, e cangiò loco.
     Io scopro immantinente un’ altro legno,
     E splender fo di varie gemme un foco,
     C’havrebbon fatta divenire humana
     À bei preghi d’Amor Palla, e Diana.

Ella le mira, e poi del pregio chiede,
     Secondo hor questa, hor quella in man le viene.
     E dice, mentre le vagheggia, e vede,
     Che saria troppo spesa al Re d’Athene.
     Un mio caldo sospir l’aria allhor fiede,
     E dico, ch’una donna il mio cor tiene,
     Che s’ella amasse me, com’io l’adoro,
     Le potrebbe comprar tutte senz’oro.

Vergognosa ella abbassa il viso, e ’l ciglio,
     Com’ io do fuor gli ultimi accenti miei,
     E ’l suo misto color divien vermiglio.
     Pur non credendo ch’ io dicessi à lei,
     M’aveggio, che fra se prende consiglio,
     Come possa saper, chi sia costei,
     Apre le labbra, e dimandarne agogna:
     Pur la ritiene il fren de la vergogna.

La donna curiosa di natura
     Di sapere i pensier d’ogni altra donna,
     Vorrebbe dimandar, ne s’assicura
     Chi sia costei, che del mio core è donna.
     Io per farla più vaga di tal cura,
     À più superbe gioie apro la gonna,
     Con dir se si mostrasse al mio cor grata,
     Vorrei ch’andasse anchor di queste ornata.

Poi le soggiungo, voi la conoscete,
     Come à voi propria le portate affetto:
     È ver, ch’io vò tener le labbra chete,
     Per più d’un ragionevol mio rispetto.
     E le fo sempre più crescer la sete
     Di trarmi il nome incognito del petto.
     Tanto, che al fin mi prega, et usa ogni opra,
     Che ’l nome de la donna io le discopra.

Rispondo al fine, è forza, ch’io m’arrenda,
     E ch’io scopra l’ardor, che mi consume,
     Ma, perche maraviglia non vi prenda,
     C’habbia à tropp’alto obbietto alzato il lume,
     Vò, che sappiate in parte, ond’ io discenda,
     Senza scoprirvi il mio paterno Nume.
     Diè quest’alma à soffrir la state e’l verno
     Un Re, che non v’è ignoto, e vive eterno.

E ben al gran valor veder si puote
     Di gemme, e gioie, ch’io mi porto à canto,
     E forse anchora à gli atti, et à le note,
     Com’ io non son quell’huom, che mostra il manto.
     Ma il grand’amor, che m’ange, e mi percote,
     Fà, che sotto quest’habito m’ammanto,
     E celo sconosciuto la mia doglia,
     Per palesarmi à lei, quando il ciel voglia.

La vidi à questo dir cangiarsi un poco,
     E conobbi, c’havea qualche timore,
     Che quel, che discoprir le volea, foco,
     Non osasse tentar lei del suo honore.
     Ma essendo dubbia al mio parlar diè loco,
     Per conoscer l’obbietto del mio amore,
     Fin, che le feci udir, che dal suo sguardo
     Scoccato havea al mio cor Cupido il dardo.

Ben le veggio turbar co’l cor l’aspetto,
     Come il mio dire à questo punto arriva:
     E se non, ch’io l’havea pur dianzi detto,
     Ch’era la stirpe mia reale, e diva,
     Credo, c’havrebbe senza altro rispetto
     La luce mia de la sua vista priva.
     Pure havendo riguardo al mio lignaggio,
     Cercò con questo dir farmi più saggio.