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D’ogni arme atta à la caccia io mi diletto,
     E che più noce à l’animal selvaggio,
     E di diverse forme io sò l’effetto,
     E qual conviensi al corno, al cerro, e al faggio:
     Hor mentre à gli occhi miei dò per obbietto
     Quel dardo, che vi serba il vostro paggio,
     Trovo, ch’al ferro, à la figura, e al legno
     No’l potrebbe Diana haver più degno.

Il ferro è di si raro, e bel lavoro,
     Et ha per quel, ch’appar, tempra si dura:
     Tal mostra leggiadria l’intaglio, e l’oro,
     Che farebbe à Vulcan scorno, e paura.
     Non può l’amante del primiero alloro,
     Che scopre tutto il ben de la natura,
     Legno veder di più vaghezza adorno
     In quante selve godon del suo giorno.

Questo avanza il corgnal, l’olivo, e ’l bosso,
     Ne solo ammorza il bel d’ogni altra trave,
     Ma può star di durezza à par de l’osso,
     Et à par de le perle il lume c’have:
     In quanto al peso, ch’ io giudicar posso,
     Non è troppo leggier, ne troppo grave.
     In somma questo dardo have ogni parte,
     Che s’appartiene à la natura, e à l’arte.

Quel, che ’l fece venir d’arbore strale,
     Ha molto ben la forza, e ’l legno inteso;
     Perche nel ver la sua grossezza è tale,
     Che corrisponde à la lunghezza, e al peso:
     E appunto in quella parte ha posto l’ale,
     Che ’l tengon nel volar meglio sospeso.
     E per quel, che ’l giudicio mio ne vede,
     Tutto è proportion dal capo al piede.

Rispose Buti allhor, questo suo dardo
     Tutte le lodi tue vince d’assai,
     Ch’oltre à quel, che la man conosce, e ’l guardo,
     Un’altra have virtù, che tu non sai:
     È men sicuro il folgore, e più tardo
     Di lui, che non s’aventa indarno mai;
     E quale il fato sia, ch’al dardo arrida,
     Non si suol mai tirar, che non uccida.

Allhor più caldo di saper desio
     Accese à Foco il giovenil pensiero,
     Chi l’autor fosse, od huom mortale, ò Dio
     Che ’l fece andar di quell’arbore altero.
     Tu vuoi, ch’ io rinovelli il pianto mio,
     Disse non senza pianto il cavaliero,
     E piacesse à gli Dei, che privo sempre
     Stato foss’ io da le sue dure tempre.

Et anchor, che Ia vista di quell’arme
     Del mio passato ben mi renda accorto,
     E del danno, ch’io n’hò, faccia attristarme,
     Per tutto ovunque vò, sempre la parto.
     Però, che la virtù del fatal carme,
     Che fe, ch’à quel, che trahe, non fa mai torto,
     Mi persuade à trarla in ogni impresa
     Meco per altrui danno, e mia difesa.

E se ben nel contar chi fosse il Nume,
     Che ’l legno mi donò, c’ha si bel manto,
     Sarò sforzato à far d’ogni occhio un fiume,
     E non potrò contarlo senza pianto;
     Vò compiacerti, et ancho aprirti il lume
     À la forza del fato, e de l’ incanto,
     Ond’hebbe il dardo quel valore interno,
     Che fu cagion del mio dolore eterno.

Non sò, se mai l’orecchie ti percosse
     Di Procri il nome figlia d’Eritteo,
     Sorella di colei, che Borea mosse
     À rapirla pel forza al lito Acheo.
     Costei, qual la cagion di ciò si fosse,
     Amore, e ’l padre suo mia moglie feo.
     E in vero, à par de la bella Orithia,
     Più degna esser rapita era la mia.

Per la rara beltà, che seco nacque,
     Ch’ogni dìcon l’età più crebbe in lei,
     Fui chiamato felice poi, che piacque
     Al ciel di darla à desiderij miei.
     E in vero era felice: ma dispiacque
     Fortuna si propitia à sommi Dei.
     Ne voglion, ch’un nel basso mondo nato
     Possa al paraggio lor dirsi beato.