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Scorsi un campo infinito di formiche
     Portar per una via molt’aspra, e stretta
     Co’l picciol corpo i frutti de le spiche
     À la città, ch’occulta haveano eletta;
     E con eguali, et utili fatiche
     Havendo al ben comun la mente eretta,
     Secondo la lor legge, e ’l lor governo,
     Si provedean per la stagion del verno.

Deh dammi, io dissi allhor, sommo Monarca,
     Di gente una republica si grande,
     E cosi industriosa, e cosi parca,
     Come questa de l’arbor de le ghiande,
     Come questa del grano avara, e carca,
     Ch’appresta per lo verno le vivande.
     Et ecco senza vento alcun si vede
     Tremar quell’arbor da la cima al piede.

Come il tronco tremar sento, e la fronde,
     Mi s’arriccia ogni pelo, e tremo anch’ io,
     E dopo nasce, io non saprei dir donde,
     Non sò, che di speranza al mio desio.
     Bacio la terra, e ’l tronco intanto asconde
     Il Sol la luce à l’hemisperio mio,
     E ristorato il corpo, e spento il lume,
     Mi dò in custodia al sonno, et à le piume.

Tosto, che ’l sonno ha tolto à la natura
     Co i sensi il lume interior, ch’ intende,
     Con quella speme, ch’à le vacue mura
     Novi abitanti d’hora in hora attende,
     Vien ne la fantasia confusa, e scura
     Quel tronco, ù la formica hor sale, hor scende,
     E gli stessi animai, c’huomini agogno,
     Mi mostra sù lo stesso arbore il sogno.

Veggio tremar dapoi l arbor robusto
     Senza che forza altrui gli faccia guerra,
     E fa tanto crollare i rami, e ’l fusto,
     Che fa cadere ogni formica in terra,
     Et ecco ogni animale un’ altro busto,
     Un’ altro volto, un’altra forza afferra,
     Si fa maggiore, e perde il nero velo,
     Et alza il novo tronco, e gli occhi al cielo.

Di più alti pensier l’alma si veste,
     E d’aspetto più nobile, e più vago,
     Fin tanto, che la sua terrena veste
     Prende de sommi Dei la vera imago.
     E quante son le trasformate teste,
     Tante han di servir me l’animo vago.
     Mi chiaman Re, mi fan l’honor, che ponno,
     Tal che per l’allegrezza io scaccio il sonno.

Mentre mi vesto, e de gli Dei mi doglio,
     Che mostrano al fantastico pensiero,
     Quando non vegghio, tutto quel, ch’io voglio,
     Ma non al lume vigilante, e vero;
     Sento maggior, che mai l’humano orgoglio,
     Ch’ ingombra il regio albergo, e ogni sentiero,
     Tal, ch’io temo sognarmi, e non mi fido
     Di me, tanto alza l’huom per tutto il grido.

Mentre io comando (e anchor mi maraviglio)
     Che s’apran per veder fenestre, e porte,
     Foco, se n’entra solo, il terzo figlio,
     Là, dove io mi vestia con poca corte;
     E con allegro, e stupefatto ciglio,
     Padre esci ne la sala, e ne la corte,
     (Mi dice) ch’un miracolo vedrai
     Maggior, che fosse al mondo udito mai.

Io gli dò fede, e lascio, che mi guidi,
     Senza ch’altro da lui di questo ascolti.
     E veggio i sogni esser leali, e fidi
     À gli huomini infiniti ivi raccolti.
     E come prima nel sognar gli vidi,
     Gli habiti raffiguro, e anchora i volti.
     Hor tosto, ch’io mi mostro, e ogn’un mi vede,
     Fà ver me riverente il ciglio, e ’l piede.

Quei, ch’erano più degni, e meglio ornati
     Di presenza, e di modi più prestanti,
     Innanzi al mio cospetto appresentati,
     Parlar per tutti gli altri circonstanti,
     E co i modi più gravi, e più honorati,
     Giurando con le man sù i libri santi,
     Mi chiamar Re con ogni riverenza,
     E promiser per tutti ubidienza.