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Ó quanti dal principio al santo choro
     Corser d’accordo al pio culto divino,
     E mentre il braccio alzava il vaso, e l’oro,
     Per gittar sù le corna al toro il vino,
     Nel più bel del mirar molti di loro
     Fur trasportati à l’ultimo destino,
     E prima, che sentisse il bue la scure,
     Mandar l’alme à le parti inferne, e scure.

Pagando anch’ io per la mia patria il voto,
     Per tre teneri figli, e per me stesso,
     Prima, che ’l Sacerdote almo, e devoto
     Ferisse il capo al bue, che m’era appresso,
     Il toro, che del mal non era voto,
     Cadde innanzi à l’altar dal morbo oppresso,
     E fuggir fe i ministri, e gli altri tutti,
     Ch’al tempio il sacrificio havea condutti.

Qual fosse allhor, ò quale esser dovea,
     Ben puoi da te pensar l’animo mio.
     Ovunque gli occhi afflitti io rivolgea,
     Nel gire, e nel tornar dal loco pio,
     Giacer per tutto il popolo scorgea,
     Al qual m’elesse Re l’eterno Dio:
     E quanto più mi rivolgea d’ intorno,
     Tanto più in odio havea la luce, e ’l giorno.

Come cade la ghianda ben matura
     In copia tal da l’arbor, che la forma,
     Che chi vi và per quanto il bosco dura,
     È sforzato à posar su’l frutto l’orma:
     Cosi i figli animati di Natura
     Caggion senza la parte, onde han la forma,
     In copia tal, che l’huom, che vavvi, e riede,
     È sforzato à posar sopr’essi il piede.

Molti prigioni fur da me salvati,
     Che dovean per giustizia haver la morte,
     E fur dal mio consiglio condannati
     À dover sepelir le genti morte.
     Da quei sù varij carri eran portati
     Gl’ infelici mortai fuor de le porte,
     Senza altra pompa, ò funerale ammanto,
     Senza altra compagnia, senz’altro pianto.

De’ quali altri restavan non sepolti,
     Altri sù varij roghi havean ricetto,
     Pugnando i pochi vivi per li molti
     Morti, c’havean portati à questo effetto.
     E tanti corpi haveano ivi raccolti
     Per dargli al foco, e al sempiterno letto,
     Ch’era à tanti sepolcri il mondo poco,
     E l’arbore era scarso à tanto foco.

Sì che se gli occhi tuoi veder non ponno
     Gli amici, che v’havesti già più d’uno,
     Vien, che fur dati al sempiterno sonno
     Da lo sdegno implacabile di Giuno.
     Hor se tu vuoi saper com’ io son donno
     Del popol, che vist’ hai tant’opportuno
     Per dar soccorso à l’Attiche contese,
     Con brevi note io te’l farò palese.

Vinto io da si nefando, e strano mostro,
     Privo di speme, e carco di spavento
     Alzo Ie luci al glorioso chiostro,
     E mando al ciel questo pietoso accento.
     Padre del ciel se mai nel mondo nostro
     Degnasti darti al nuttial contento,
     S’è ver, che de la tua stirpe divina
     Mi desti al mondo, et à la madre Egina;

Ó rendimi quell’alme, onde m’hai privo,
     Ó me insieme con lor dona à la tomba.
     Parlando à pena à questo punto arrivo,
     Che con un chiaro lampo il ciel rimbomba,
     E dove io son fra mille morti vivo,
     Un folgor vien da la paterna fromba,
     E par, che dica il tuono alto, e veloce,
     Il cielo ha dato applauso à la tua voce.

Allegro alquanto il buono augurio io prendo,
     Che dal ciel manda il Re de gli alti Dei,
     E mentre novi preghi al cielo io rendo,
     Che rispondan gli augurij à voti miei,
     In una antica quercia i lumi intendo,
     Ch’ ivi piantar de boschi Dodonei.
     E quello, ch’ io vi scorsi, e che v’ottenni,
     Fù cagion, che felice in tutto io venni.