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Passato l’Equinottio dopo il verno,
     Tutto ingombrar gli Austri infelici il cielo,
     E fer la terra un tenebroso inferno,
     E posero à le stelle, e al Sole il velo.
     Quell’humido, c’havean le nubi interno,
     Risolver non potea lo Dio di Delo,
     Tal, che ’l misero mondo stava sotto
     Un’ aere oscuro, fetido, e corrotto.

Quattro volte havea Delia il suo viaggio
     Finito contra il ciel per l’orme antiche,
     E gli Austri ascoso havean l’Aprile, e ’l Maggio,
     E fatte in tutto inutili le spiche.
     E s’ascondeano, e se scopriano il raggio
     Del Sol l’ombre à la terra poco amiche,
     Sempre à l’aer facean maggior la guerra,
     E contra il desiderio de la terra.

Se chiedono i mortai l’Aquilo, e ’l Sole,
     Rinforza l’Austro, il nuvolo, e la pioggia:
     Se ’l Sole appar men caldo, che non suole,
     Per nostro maggior mal si mostra, e poggia.
     E faccia pur il tempo quel, che vuole,
     Sempre in danno del mondo ei cangia foggia;
     E fa il vapor nel ciel si vario, e misto,
     Che l’aere è ogn’hor più putrido, e più tristo.

Poi che con soffio ardente humido, e poco
     Il suo putrido fiato Austro hebbe tratto,
     E per l’humidità, che vinse il foco,
     Restò del tutto l’aere putrefatto;
     Quel fetor, che vi crebbe à poco à poco,
     Mostrò la forza sua tutta in un tratto.
     E ’l videro i mortali afflitti, e imbelli
     À la strage de cani, e de gli augelli.

Cade la lana al misero montone,
     Senza che ’l rovo gliele ’nvoli, ò porti,
     E bela, e duolsi, e ’l capo in terra pone,
     Ve ’l pongon gli animai di lui più forti.
     Per ogni via le fiere, e le persone
     Si veggono languir, poi caggion morti.
     Ara il bifolco, e innanzi à gli occhi suoi
     Vede cader l’un dopo l’altro i buoi.

Il feroce corsier non rigne, e freme,
     Gli è mancato il vigor, non ha più core;
     Nel presepio si stà languido, e geme
     La morte, che venir dee fra poch’hore.
     Non s’adira il cinghial, quand’altri il preme,
     Ne mostra con le zanne il suo furore;
     Ma con suono egro alquanto alza le strida,
     E lascia, che ’l percota, e che l’uccida.

Il già placato, e miserabil’ angue
     Vien da maggior venen battuto, e vinto;
     L’aura, ch’infetta il corpo interno, e ’l sangue,
     Ne lo stupor tiengli ogni senso avinto.
     Ogni huomo, ogni animal s’ infetta, e langue,
     E giace infermo, e resta in breve estinto.
     E tanto è l’animal, che morto cade,
     Ch’ i campi di defunti empie, e le strade.

Giaccion per ogni suol (chi fia, che ’l creda?)
     Ne il can n’osa mangiar, ne il lupo ingordo.
     E par, ch’al lezzo ogn’un conosca, e veda,
     Ch’ogni corpo è di peste infetto, e lordo.
     Gli augei rapaci, et usi à simil preda
     Dal naso han tutti il medesmo ricordo.
     L’astore, e ’l nibbio, e lo sparviere, e ’l corbo
     Sente, e fugge il fetor, che rende il morbo.

Distesi per li campi i corpi stanno,
     E corrotti dal tempo, che gli strugge,
     Un fetor si malvagio à l’aere danno,
     Che ’l cerca ogn’un fuggir, ne alcuno il fugge
     Pero, ch’ in ogni parte ove si vanno,
     D’ infiniti il fetore il ciel si sugge.
     Tal, che l’aere per tutto è ogn’ hor men puro,
     E più contagioso, e men sicuro.

Ma se per le campagne, e per le ville
     Giaccion sparsi i bifolci, e gli animali,
     Ne le città più grandi à mille à mille,
     Vanno al sepolcro i miseri mortali.
     Di mille roghi al ciel van le faville,
     I quai bastano à pena à principali.
     E quei che restan vivi in varij lochi
     Pugnan per li sepolcri, e per li fochi.