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settimo. 121

Ah quanto scarsi, e brevi ha i suoi contenti
     Quella felicità, che ’l mondo apporta.
     Come son pronti i miseri accidenti
     A perturbarla, e farla in tutto morta.
     Quel, che credea con tanti ben presenti
     Chiusa ad ogni infortunio haver la porta,
     Ha nova, che ’l Cretense Imperatore
     Il regno gli vuol tor, l’alma, e l’honore.

Minosso il Re de la Saturnia terra
     Hebbe un figliuolo Androgeo al mondo raro,
     Famoso ne la lotta, e ne la guerra
     Per l’atletica impresa illustre, e chiaro.
     Dove il Palladio muro Athene serra,
     Del suo valor non volle essere avaro,
     Anzi con tanto honor la lotta vinse,
     Che vi fu per invidia chi l’estinse.

Il Re d’Athene provido, et accorto
     Mandò queste parole al padre irato,
     Se nel mio regno Androgeo è stato morto,
     Tosto, che quel, ch’errò sarà trovato,
     Farò condurlo al tuo Cretense porto,
     Che dal tuo tribunal sia castigato,
     Ne mancherò d’ogni opportuno officio,
     Che si ritrovi, e mandi al tuo giudicio.

Se bene à questa scusa ei par, che stesse,
     Mandò secretamente alcuni sui,
     Ch’investigasser ben, chi tolto havesse
     Un figlio cosi raro al mondo, e à lui.
     E dopo qualche dì par, ch’intendesse,
     Che ben ch’Egeo desse la colpa altrui,
     Havea lo stesso Re modo tenuto,
     Che fosse Androgeo suo donato à Pluto.

E dato havendo à questo inditio fede,
     E volto à la vendetta il giusto sdegno,
     L’ambasciator de la Palladia sede
     Fece licentiar del Ditteo regno,
     E senza dargli termine, e gli diede
     Da passare in Athene un picciol legno,
     E con quel tristo aviso era in quel punto
     Lo scacciato lor nuntio al porto giunto.

Chiedendo udienza per l’ambasciatore
     Fè il secretario il Re pensoso, e mesto,
     Dicendo, che per quel, ch’apparea fuore,
     Era per riferir peggio di questo.
     Intanto l’oltraggiato Imperatore
     Fà con ogni suo sforzo d’esser presto,
     E sapendo il poter del suo nemico
     Cerca ogni Re vicin tirarsi amico.

E se ben di pedoni, e cavalieri,
     E di triremi, e navi era si forte,
     Che potea far senz’huomini stranieri
     Terrore, e danno à le Cecropie porte:
     Pur come fanno i providi guerrieri
     Mandò persone nobili, et accorte,
     Per collegar quei regni in quella guerra,
     Che ’l potean far più forte in mare, e ’n terra.

Fra gli altri elesse un saggio cavaliero,
     Ch’andasse à collegar le forze d’Arne.
     Un pezzo stette in dubbio ei nel pensiero,
     Come difficultà mostrasse farne:
     E poi rispose un servo fido, e vero,
     (Se ben deve obedir) quando tornarne
     Può danno al suo Signor troppo evidente,
     Non dee mancar di dir quel, ch’ei ne sente,

Non fu mai nation più avara, e infida,
     Ne si può trar da loro altro, che danno,
     Non sol micidial, ma parricida,
     Ma, che contra se stessa usa l’inganno.
     Se ’l soldo tuo la lor militia affida,
     E quei tanto prudenti Attici il sanno,
     E fanno à lor veder de l’oro il lampo,
     Ecco in un dì te morto, e rotto il campo.

Siton fu già Signor di quella parte,
     Che vuoi, ch’io cerchi collegarti amica,
     E sostenendo un periglioso Marte
     Da molta gente barbara nemica,
     Mentre le forze patrie egli comparte,
     E assicurar lo Stato s’affatica,
     Il luogo più importante si consiglia
     Fidare ad Arne, à la sua propria figlia.