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Mentre danna Giason la fiamma ultrice,
     E duolsi, e ripararvi si procaccia,
     Da lunge appar Medea, ch’onta gli dice,
     E di maggior vendetta anchor minaccia,
     E l’uno, e l’altro suo figlio infelice
     Con la nefanda man gli uccide in faccia.
     Corre egli à sfogar l’ira, che lo strugge,
     Dice ella i versi, e ’l carro ascende, e fugge.

Verso Athene fa gir l’aeree rote
     La maga, dove poco prima avenne,
     Che Perifa, e Fineo con la nipote
     Vestir di Polipemone le penne.
     Medea con grati modi, e dolci note
     Da Egeo, ch’ ivi reggea, l’albergo ottenne.
     Il qual veduto il suo leggiadro aspetto,
     Sposolla, e fe comune il regno, e ’l letto.

Già questo Re fuor de la sua contrada
     Etra sposò, che nacque di Pitteo,
     E ingravidolla, e le lasciò una spada
     Per lo figliuol, che poi nominar Teseo.
     Nove volte nel ciel l’usata strada
     Fornita la nipote havea di Ceo,
     Quand’ella aperse il ventre, e si fe madre
     Di Teseo, c’hebbe adulto il don del padre.

Venne poi Teseo un cavalier si forte,
     Che ne sonava il nome in ogni parte,
     E per ogni città, per ogni corte
     Da tutt’ era stimato un novo Marte.
     Tentato c’hebbe un tempo la sua sorte,
     Per conoscere il padre, al fin si parte,
     E havendo per camin pugnato, e vinto,
     Da ladri assicurò l’Ismo, e Corinto.

Non come figlio al padre s’appresenta,
     Che vuol veder, s’ei l’ ha in memoria prima.
     Tosto, che ’l nome suo fa, che ’l Re senta,
     Ch’à lui viene un guerrier di tanta stima,
     D’ogni accoglienza, e honor regio il contenta,
     E ’l pon de la sua corte in sù la cima,
     E quei promette à lui pregi, et honori,
     Che può nel regno suo donar maggiori.

Non sà però il Re, che ’l guerrier, c’have
     Ne la sua corte si famoso, e degno,
     Sia quella prole, ond’Etra lasciò grave,
     À cui la spada sua diede per segno:
     Pur vedendolo affabile, e soave,
     Ricco di forza, d’animo, e d’ingegno,
     Ogni favor gli fa con lieto ciglio,
     Ne più faria sapendo essere il figlio.

Vide Medea co’l suo non falso incanto,
     Che ’l cavalier, ch’al Re tanto piacea,
     Dovea portar d’Athene il regio manto,
     Tosto che ’l vecchio Egeo gli occhi chiudea.
     La qual cosa à Medea dispiacque tanto,
     Che già del Re d’Athene un figlio havea,
     Che per salvare al figlio il regio pondo,
     Pensò questo guerrier levar del mondo.

E disse verso il Re per arte ho visto
     Quel, che del cavalier chiede la sorte,
     E del bel regno tuo far deve acquisto,
     Come ti toglie il Sol l’avara morte:
     E rende il core al Re turbato, e tristo,
     Che ben vedea, ch’un cavalier si forte
     Se de’ gradi il rendea promessi adorno,
     Potea torgli à sua voglia il regno, e ’l giorno.

E se ben non vedea nel bello aspetto
     Alcuno inditio, alcun segno d’ inganno,
     Pur come vecchio accorto, e circospetto,
     Si volle assicurar da tanto danno.
     Mentre per dare à questa impresa effetto
     Molti discorsi il Re pensoso fanno,
     Medea, che pria v’havea l’animo inteso,
     Tutto sopra di se tolse quel peso.

Quando venne di Scithia al lito Argivo
     Medea per migliorar fortuna, e terra,
     Havea portato un tosco il più nocivo,
     Che nascesse giamai sopra la terra.
     Nel regno d’ogni bene ignudo, e privo
     Prima questo venen vivea sotterra,
     E poi per nostro mal, come al ciel piacque,
     Nel miglior mondo in questa forma nacque.