Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/249

Sopra Cea passò dopo, e le sovenne
     D’Alcidimante la felice morte,
     Che quando la figliuola hebbe le penne,
     Al vital corso havea chiuse le porte.
     E se di donna una colomba venne,
     Non lagrimò la sua cangiata sorte.
     Ver quella Tempe poi passar le piacque,
     C’ hebbe nome dal Cigno, che vi nacque.

Appresso à Tempe, ov’hoggi è l’Hirio lago,
     Arde Fillio d’amor de l’Hiria prole,
     D’un garzon di si bella, e rara imago,
     Che dispone il suo amante à quel, che vole.
     Se vede d’uno augello il suo amor vago,
     Fillio và con tant’arte à l’ombra, e al Sole,
     Che lieto al fine il trova, il segue, e ’l prende,
     Et al dolce amor suo domato il rende.

Per servare al suo imperio honore, e fede,
     Orsi, tori, leoni abbatte, e lega.
     Vede un tratto il fanciullo un toro, e ’l chiede,
     Sdegnato finalmente Fillio il nega.
     Ver la cima d’un monte affretta il piede
     L’irata prole d’Hiria, e più no’l prega,
     E dice à Fillio, anchor darmi vorrai
     Quel, che t’hò dimandato, e non potrai.

Si getta, come è in cima, giù del monte,
     Per veder de’ suoi dì gli estremi affanni.
     Si credea ogn’un, che la virginea fronte
     Cader dovesse in terra, e finir gli anni;
     Ma le penne à venir fur troppo pronte,
     Che ’l fero un Cigno, e diero à l’aria i vanni.
     Pianse la madre, e si stracciò le chiome,
     E fe piangendo il lago, e diegli il nome.

Verso il Pleuro poi prese la strada,
     Dove Combea, la qual nacque d’Ofia,
     De’ figli hebbe à temer l’ ira, e la spada,
     Ma si fece un’ augello, e fuggì via.
     Scoprì dapoi la Calaurea contrada,
     Sacra à la Dea, che parturiti havia
     À la notte, et al giorno il maggior lume,
     Dove la moglie, e ’l Re vestir le piume.

Si volge poi dove i Cillenij stanno,
     E dove un cieco amor si accese il petto
     À Menefron, che, come i bruti fanno,
     Con la madre volea commune il letto.
     Vide Cefiso poi, che piangea il danno
     Del nipote, c’havea cangiato aspetto,
     Ch’un dì fe, che tant’ ira Apollo assalse,
     Che ’l fe una Foca, e diello à l’onde salse.

Lascia adietro Cefiso, e ’l camin piglia
     Ver l’albergo d’Eumelio, e vede dove
     Egli ne l’aria già pianse la figlia;
     Poi ver Corinto i draghi instiga, e move.
     Quivi à quel luogo ella chinò le ciglia,
     Che la Grecia arricchì di genti nove.
     La pioggia empì di funghi il monte, e ’l piano,
     Poi si fece ogni fungo un corpo humano.

Al regio albergo poi volge la fronte,
     Dove l’ingrato suo consorte vede
     La figliuola sposar del Re Creonte,
     E à lei mancar de la promessa fede.
     Le voglie à la vendetta accese, e pronte
     Rende l’ira, che l’ange, e la possiede,
     E fà portar da figli al regio nido
     À la sposa novella un dono infido.

La Maga i figli suoi chiama in disparte,
     E d’oro una bella arca in man lor pone,
     E insegna loro il modo à parte à parte
     Di presentarla in nome di Giasone.
     Quivi era dentro fabricato ad arte
     (Che smorzato parea) più d’un carbone,
     Che come vedea l’aria, s’accendea,
     E pietre, e muro, e sino à l’acqua ardea.

Com’han dato i figliastri à la matrigna
     L’arca, dove il presente era riposto,
     Ritornano à la madre empia, e maligna
     Correndo, come à lor da lei fu imposto.
     Apre la sposa l’arca, e ’l foco alligna
     Co’l velen, che nel dono era nascosto,
     Ch’arde il palazzo, e lei con mille, e mille,
     E manda al ciel le fiamme, e le faville.