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Ma se da l’amor mossa, ond’ io tutta ardo,
     E dal valor, ch’in lui tanto commendo,
     Con pietoso occhio il mio Giason riguardo,
     E la mirabil sua beltà difendo,
     Ver l’affetto paterno il piè ritardo,
     La paterna pietà del tutto offendo.
     Ch’un, che vuol torgli, à favorire io vegno,
     Il più ricco thesor, c’habbia nel regno.

Misera, à che risolvo il dubbio core?
     Quanto ci penso più, più mi confondo.
     Favorirò chi quel vuol torci honore,
     Che celebri ne fa per tutto il mondo?
     Un, che con ogni suo sforzo, e valore,
     Per privar l’arbor d’or del ricco pondo,
     Vien si da lungi. e s’empie il suo desio,
     Perpetuo scorno fia del padre, e mio?

Che farò dunque misera? io conosco
     Quanta sia la pietà, che debbo al padre.
     Ma soffrirò, ch’in bocca entrino al tosco
     Si delicate membra, e si leggiadre?
     Soffrirò, che di ferro armate, e bosco
     Le fresche de la terra uscite squadre
     Voltin l’arme in suo danno ? ò ’l fatal toro
     L’alzi su’l corno al ciel per salvar l’oro?

Non è, misera me, saggio consiglio
     D’una figlia d’un Re, d’una donzella,
     S’io vengo à favorir d’Esone il figlio,
     E toglio al padre mio gioia si bella.
     Perche terrò cur’ io del suo periglio,
     S’egli ha ver noi la mente empia, e rubella?
     Misera, il mio dover conosco, e veggio,
     Pur approvo il migliore, e seguo il peggio.

Seguane quel, che vuol, vò dargli aita
     Contra il mio honor, contr’ Eta, e contra il regno,
     E non voglio veder toglier la vita
     À si lodato giovane, e si degno.
     E poi vò seco, ove il suo amor m’invita,
     Gir per l’ignoto mar su’l novo legno;
     E per eterna mia gioia, e riposo
     Vò far Grecia mia patria, e lui mio sposo.

Ma come ardirò mai solcar quel mare,
Ú son le navi misere condotte?
Ú si sogliono i monti insieme urtare?
     Dove da venti son gittate, e rotte?
     Dove si sente Scilla ogn’hor latrare?
Ú l’avara Cariddi i legni inghiotte?
     Perderò l’honor mio con questo inganno,
     Per gire al certo mio periglio, e danno?

À che tanto timor, tanto cordoglio
     Potrà morso si fral tenermi in freno?
     Se tener de l’honor conto io non voglio,
     Debbo io stimar la vita, che val meno?
     Non ho da temer mar, vento, ne scoglio,
     Pur ch’io mi trovi al mio Giasone in seno.
     E se pur debbo al timor dar ricetto,
     Debbo temer di lui , ch’egli è ’l mio obbietto.

Dunque per un non giusto, e van desio
     Debbo fare al mio sangue il cor rubello ?
     Abbandonare il mio genitor pio?
     La mia germana? e ’l mio caro fratello?
     Lasciar l’antico, e regio albergo mio?
     Et un regno si fertile, e si bello?
     Per gir fra genti strane in un paese,
     Dove le note mie non sieno intese?

Anzi son questi miei paesi ignudi
     Di quei beni, onde ricca è l’altra parte.
     Costumi regnan qui barbari, e crudi,
     Quivi ogni fatto illustre, ogni degna arte,
     Quivi son le cittadi, e i dotti studi,
     Ch’empion le nostre anchor barbare carte.
     E se le cose grandi insieme adeguo,
     Le grandi non lascio io, le grandi seguo.

Che fai, cieca? che fai? vuoi tu dar fede
     Ad un, cui mai non hai parlato, ò visto?
     Ad un, che forse il tuo connubio chiede,
     Perche gl’insegni à far del vello acquisto?
     Pensa (e non lasciar pria la patria sede)
     Quanto sarà il tuo stato acerbo, e tristo,
     S’egli nel regno patrio ti raccoglie
     Da fanciulla impudica, e non da moglie.