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Mentre ella tiene in lui ferma la luce,
     E sente quel, ch’il padre gli rammenta,
     Ch’à manifesta morte si conduce,
     Se di quel vello d’or l’impresa tenta;
     Pensa di farsi à lui soccorso, e duce,
     Perche tanta beltà non resti spenta,
     Et aiutar quel cavaliero esterno
     Contra il nemico à lui pensier paterno.

Poi c’hebbe con gran gloria, honore, e canto
     Frisso sacrato à Giove il ricco vello,
     Dove si fece il sacrificio santo,
     Apparse un’ arbor d’or pregiato, e bello:
     Subito appese il pretioso manto
     Frisso à l’apparso d’oro albor novello,
     Alzando à Giove poi le luci, e ’l zelo
     Mandò con questa voce i preghi al cielo.

Tu sai, quanta avaritia alberghi, e regni
     Fra noi mortali ò Re del sommo choro,
     E quanti rei pensier, quant’atti indegni
     Faccia l’huom tutto ’l dì sol per quest’oro.
     Perche mortale alcun mai non disegni
     D’involar questo tuo nobil thesoro,
     E perche in honor tuo qui sempre penda,
     Manda qualchun, che ’l guardi, e che ’l difenda.

Non fu già il suo pregar d’effetto vano,
     Ch’à pena il suono estremo al prego diede,
     Ch’ivi apparver due tori, à cui Vulcano
     Havea fatto di ferro il corno, e ’l piede.
     Ben’ opra esser parea de la sua mano,
     Che ’l foro, onde lo spirto essala, e riede,
     D’inestinguibil foco ogni hora ardea,
     Simile à quel de la montagna Etnea.

D’eterno foco un drago anchora apparse,
     Di veneno, e di sguardo oscuro, e fosco.
     È ver, ch’alcun mai non uccise, od arse,
     E non curò d’oprar fiamma, ne tosco,
     Se non s’alcuno in van volle provarse
     D’ involar l’aureo pregio à l’aureo bosco.
     E per far Giove il loco più sicuro,
     Tutto cinse il giardin d’un fatal muro.

Le chiavi ad Eta Re de Colchi porse,
     Che fu padre à Medea, con questa legge,
     Che s’à quei mostri alcun chiedea d’opporse,
     Per torre il don, che ’l ricco albergo regge,
     Per porlo più del raro acquisto in forse,
     Giurasse sopra il libro, che si legge
     Sopra il divino altar, di far la prova,
     Che Cadmo fe ne la sua patria nova.

Quando al fonte il dragon spense di Marte
     Quel, c’hor l’herboso suol serpendo preme,
     Palla, e ’l fratello la metà in disparte
     Poser de denti insidiosi insieme,
     E dopo il Re de la beata parte
     Ad Eta diede il periglioso seme
     Per sicurtà del bel giardin, ch’asconde
     Il pretioso vello, e l’aurea fronde.

Et havea ben qualche rimordimento
     Che si nobil guerrier restasse morto,
     Ma troppo egli facea contra il suo intento,
     Se privo di quel don gli rendea l’horto.
     Però pria che gli desse il giuramento,
     Del seme, e del periglio il fece accorto,
     Ma scortol poi d’ogni timore ignudo,
     Con occhio il fe giurar nemico, e crudo.

Ma se suarda Giason con crude ciglia
     Il Re d’ ira infiammato, e di dispetto;
     Lo guarda, e l’ode l’infiammata figlia
     Con occhio dolce, e con pietoso affetto.
     Brama ei veder di lui l’herba vermiglia,
     Ella il brama goder consorte in letto.
     Egli il vorria veder restar senz’alma,
     Ella di quell’ impresa haver la palma.

Mentre con sommo suo diletto il vede,
     Passa per gli occhi al cor l’imagin bella,
     Là dove giunta imperiosa siede,
     E scaccia l’alma fuor de la donzella,
     La qual nel viso pallido fa fede,
     Com’ella dal suo cor fatt’ è rubella;
     E mostrar cerca al bello amato volto,
     Come l’imagin sua l’have il cor tolto.