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sesto. 102

Soggiunse un, che fra lor sedea nel tempio
     Di presenza, d’età grave, e di panni.
     Bastar dovrebbe il raccontato essempio
     A far saggi i futuri huomini, et anni:
     Pur vo un’errore ancho’ io contar manco empio,
     Ch’afflisse il malfattor di maggior danni,
     Ch’oprò senz’altrui danno opre men felle,
     E vide il corpo suo star senza pelle.

Fù Marsia in Frigia un Satiro nomato,
     Fra i musici più degni il più perfetto,
     Ne le canne da vento il più lodato,
     O sia trombone, ò piffero, ò cornetto.
     Mentre fè Apollo à buoi pascere il prato,
     Hebbe di questo suon molto diletto;
     E fama fu, che Febo in questa parte
     Sapesse più, che non discorre l’arte.

Venne à goder dopo cent’anni, e cento
     Questo Marsia, ch’io dissi in terra il lume,
     Ch’à dare à flauti, et à cornetti il vento
     Apprese per natura, e per costume.
     E preferirsi à Febo hebbe ardimento,
     Per donare à la patria un novo fiume,
     Che come hebbe di questo Apollo nova,
     Scese dal cielo in Frigia, e venne in prova.

Stupisce il biondo Dio tosto, ch’intende
     Il dolce suon, che ’l Satiro dà fuora,
     Che mentre un dolce spirto al corno ei rende,
     Hor co’l suon si rallegra, hor s’ange, e plora.
     Quanto più vien lodato, più s’accende
     Di gloria, e nel parlar sè solo honora,
     E dice à Febo, homai conoscer puoi.
     Quanto avanzi il mio suono i merti tuoi.

Quanto ad Apollo il suon di Marsia aggrada,
     Tanto gli spiace il suo soverchio orgoglio.
     E disse à lui la tua virtù si rada
     Fà, ch’ammonir d’un grande error ti voglio.
     Per far, che ’l tuo valor teco non cada,
     Prendi del tuo fallir teco cordoglio,
     E dì con humil cor come ti penti
     D’haver biasmati i miei più dolci accenti.

Ch’io giuro per quell’acqua, che mi sforza,
     Che s’ostinato stai nel tuo pensiero,
     Con dir, che l’arte tua sia di più forza,
     Tal dar castigo al tuo parlare altero,
     Che vedrai ’l corpo tuo star senza scorza.
     Ma quando ti ravegga, e dica il vero,
     E che del fallo tuo cerchi perdono,
     Io vò giunger dolcezza al tuo bel suono.

Non vorrei dal tuo orgoglio esser costretto
     Far perir l’arte tua, ch’al mondo è sola;
     E quando di sentirmi habbi diletto,
     Fà diventar humil la tua parola:
     Che per lo stesso stagno io ti prometto
     Di vento à questo corno empir la gola.
     E da la cortesia di questo legno
     Esser l’accento mio saprai più degno.

Le Ninfe, i Fauni, e gli altri Semidei,
     E i Satiri fratelli eran d’intorno
     A Marsia, che cedesse à i sommi Dei,
     C’honorasse lo Dio, ch’apporta il giorno:
     Vo’, che siano i suoi canti i miei trofei,
     Risponde il folle, e giunge scorno, à scorno.
     Irato Apollo il legno al labro accosta,
     E fida al bosso altier la sua risposta.

La lingua, il labro, il legno, i diti, e ’l vento
     Di tempo in tempo obedienti à l’arte
     Si dolce fean ne l’aria udir concento,
     Che si vedea, che da l’Etherea parte
     Era disceso il nobile istrumento,
     E l’autor, che le note, e ’l suon comparte;
     Tal, che l’alme soggette al caldo, e al gielo
     Donar l’honore al cittadin del cielo.

La Ninfa, il Fauno, e ogn’un, che ’l suon udio,
     Di consenso comun chiaro risponde,
     Che ’l Fauno è vinto, è vincitor lo Dio,
     E ’l campo gli adornar di nova fronde.
     Romper non posso il giuramento, ch’io
     Pur dianzi fei per l’osservabili onde,
     (Disse lo Dio pentito) e un ferro prende,
     Che privar de la pelle il vinto intende.