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Riguarda meglio, e vede, che la guerra
     De gli Euri, e de la parte à lor contraria,
     Distrugge à fatto gli huomini, e la terra,
     E ’l regno salso, e ’l foco, e ’l cielo, e l’aria.
     Subito in mano ogni saetta afferra,
     Ch’esser più suole à noi cruda aversaria,
     E, perche ogn’un del par la penna senta,
     Folgori quinci, e quindi à un tratto aventa.

Il mormorar de venti è di tal suono,
     E ’l soffio è si veloce, oscuro, e forte,
     Che’l balen non appar, non s’ode il tuono,
     Anzi gl’irati Dei soffian di sorte,
     Che rimandati al cielo i fuochi sono,
     E se fosser gli Dei soggetti à morte,
     La patria in modo urtar superna, et alma,
     C’havriano à più d’un Dio levata l’alma.

Confuso Giove stà con gli altri Dei,
     Non han rimedio al lor propinquo danno,
     Il folgor più non val, che i venti rei
     Contra il folgorator tornare il fanno.
     Contra il voler de venti Nabatei
     Gl’ Iberi à l’Asia già la statua danno:
     Ch’ad onta del terribile Aquilone
     Sopra Eritrea Libecchio al fin la pone.

Quanto l’orgoglio cresce d’Occidente,
     Tanto manca la forza de nemici,
     Già fan contra il voler de l’Oriente
     Volar colei sù le Smirnee pendici.
     Restar non può più Borea à l’ insolente
     Africo, che fa i marmi empi, e infelici
     Volar contr’ Hermo , e si il nemico infesta,
     Ch’al fin su’l monte Sipilo l’arresta.

Vedendo Subsolano il marmo posto
     Su’l monte patrio de la donna altera,
     Mutando in un momento il suo proposto,
     Fa ritirar la congiurata schiera.
     S’acchetò anchor l’ Imperadore opposto,
     E fer l’aria restar vacua, e leggiera.
     Cominciò allhora il piover de le travi,
     De sassi, d’animai, d’huomini, e navi.

Fecero à gli antri lor Regij Sicani
     La sera i venti al lor Signor ritorno,
     Ch’irato gli afferrò con le sue mani,
     E li serrò nel solito soggiorno.
     Fan di natura quei leggieri, e vani
     Hor pace, hor guerra mille volte il giorno,
     Ne d’Eolo la prigione horrenda, e scura
     Render può saggia mai la lor natura.

Ogn’un, ch’in torre ben fondata, e forte,
     Ó in qualche fossa sotterranea, ò speco,
     Da venti restò salvo, e dà la morte,
     Trema anchor di quel tempo horrendo, e cieco;
     E rende gratie à la celeste corte,
     Ma molto più di tutti il Frigio, e ’l Greco:
     Che san, che ’l marmo infido di colei
     Piange anchor la vendetta de gli Dei.

Vedendo tutti, che ’l Divin giudicio
     Sparso del sangue Regio havea le glebe,
     Di novo ritornaro al sacrificio
     Non sol la donna, e l’huom, c’habita in Thebe,
     Ma vennero à honorare il santo officio
     Da tutta Grecia i nobili, e la plebe.
     Dove sacrar con canti, odori, e lumi
     Tre altari à tre da Thebe offesi Numi.

E come avien, che ’l più prossimo essempio
     Torna à memoria altrui le cose antiche,
     Dicean ridotte in un canton del tempio
     Molt’anime prudenti al cielo amiche;
     Ch’ogn’un che cerca, è troppo ingiusto, et empio,
     L’alme elette del ciel farsi nemiche:
     E ricordavan molti essempi, e pene
     Successe altrui per contraporsi al bene.

Sedea un vecchio fra quei molto prudente,
     C’havea grave l’aspetto, e le parole,
     Ben ch’al mondo il donò d’oscura gente
     La fertil region, ch’ anchor si dole
     Del mostro inespugnabile, e possente,
     À cui levò Bellerofonte il Sole.
     Ma l’età, e la prudenza, e ’l ricco panno
     Degno il facea d’ogni honorato scanno.